Medicina e ricerca

Attualità in tema di diagnostica virologica nella gestione del paziente con Epatite B cronica

di Romina Salpini e Carlo Federico Perno (Università degli Studi di Roma Tor Vergata)

S
24 Esclusivo per Sanità24

Nei 50 anni trascorsi dalla scoperta dell'Antigene Australia ad oggi, sono stati compiuti numerosi passi avanti in campo diagnostico, che hanno condotto ad un miglioramento nella gestione clinica del paziente con infezione da HBV. Lo sviluppo di saggi molecolari altamente sensibili, che permettono di rilevare e quantificare l'HBV nel siero e di studiare le caratteristiche virali (test genotipico), ha completamente rivoluzionato la diagnostica dell'epatite B. In particolare, è oggi possibile quantificare livelli anche molto bassi di virus circolante (fino a 20 UI/ml) e conoscere il genotipo virale, informazione fondamentale per predire la progressione di malattia e la risposta alla terapia. Attualmente, in aggiunta ai saggi di diagnostica molecolare, la disponibilità di un ampio pannello di marcatori sierologici (HBsAg, HBeAg, anti-HBe, anti-HBc totali ed IgM) e la recente possibilità di quantificare i livelli sierici di alcuni di questi (HBsAg, HBeAg ed anti-HBc quantitativi), consentono di caratterizzare in modo puntuale l'infezione e di seguirne l'andamento, sia naturale che in risposta ai farmaci antivirali.
Se è vero che oggi l'HBV-DNA sierico gioca un ruolo guida sia nella scelta dell'inizio che nel monitoraggio della terapia, un importante valore aggiunto nella gestione del paziente con infezione cronica da HBV viene fornito dalla quantificazione dell'HBsAg, parametro che riflette l'attività metabolica del minicromosoma virale (cccDNA). Diversi studi hanno infatti dimostrato come il quantitativo di HBsAg sia un importante marcatore predittivo di risposta al trattamento. In particolar modo, nei pazienti che ricevono Peg-Interferon, livelli pre-terapia più bassi di HBsAg (< 20,000 UI/ml), sono correlati ad una più alta probabilità di raggiungere il successo virologico (1). Di contro, un basso declino dell'HBsAg o livelli persistentemente elevati di HBsAg sotto terapia interferonica sono predittori di mancata risposta e rappresentano criteri d'interruzione precoce del trattamento (2). Per i pazienti trattati con gli analoghi nucleos(t)idici (NUCs), la situazione è differente: è ormai noto come, nonostante una costante soppressione della replicazione virale, il declino dell'HBsAg, in corso di terapia con i NUCs, sia estremamente lento. Tuttavia, studi recenti hanno suggerito l'utilizzo dei livelli di HBsAg al fine di identificare i pazienti candidati ad una interruzione precoce del trattamento con i NUCs, prima della clearance dell'HBsAg. In particolare, i risultati di una metanalisi su 1720 pazienti con interruzione strutturata dei NUCs, ha suggerito l'utilizzo di livelli di HBsAg <100-200 IU/ml come predittori di risposta virologica sostenuta anche in assenza di terapia e successiva sieroconversione dell'HBsAg (3).
Per i pazienti HBeAg positivi, un altro importante marcatore di risposta terapeutica è rappresentata dalla sieroconversione HBeAg, la quale si associa ad un ridotto rischio di progressione a cirrosi ed epatocarcinoma. Recentemente, è stato evidenziato come bassi livelli di HBeAg pre-terapia ed un rapido declino dell'HBeAg sotto trattamento comportino una maggiore probabilità di sieroconversione HBeAg ed un miglior outcome a lungo termine per il paziente (4, 5). Ad oggi, tuttavia, le conoscenze sui livelli di HBeAg sono limitate ed ulteriori studi sono necessari per chiarire i cut-off di HBeAg predittivi di risposta e la cinetica di declino di tale marcatore sotto terapia.
Infine, un vecchio marcatore sierologico su cui oggi si sta ponendo nuova attenzione è l'anti-HBc totale, in quanto la sua positività nei soggetti HBsAg negativi rappresenta il principale indice di pregresso incontro con il virus dell'epatite B e della possibile presenza di un infezione occulta (definita dalla persistenza di HBV-DNA nel fegato di soggetti HBsAg negativi).
L'importanza di diagnosticare le forme occulte di HBV risulta particolarmente importante nei soggetti candidati ad una terapia immunosoppressiva, esposti ad un importante rischio di riattivazione dell'infezione, che può avere conseguenze cliniche molto severe per il paziente. A tal proposito, è importante ricordare come in una percentuale rilevante di pazienti che vanno incontro alla riattivazione di una forma occulta dell'infezione, si assiste ad una permanenza della negatività dell'HBsAg alla riattivazione, nonostante livelli di HBV-DNA elevati. Studi genetici sul virus alla riattivazione hanno mostrato come tale negatività dell'HBsAg sia legata alla presenza di specifiche mutazioni virali, in grado di inficiare il riconoscimento dell'HBsAg da parte degli anticorpi utilizzati nei saggi diagnostici, fenomeno noto come escape diagnostico (6, 7). Tali dati supportano fortemente l'utilità dell'HBV-DNA nella diagnosi della riattivazione dell'epatite B.
Negli ultimi anni, diversi studi si stanno rivolgendo all'analisi dei livelli sierici dell'Anti-HBc totale e sulla loro utilità nell'identificare i pazienti che presentano una reale infezione occulta da HBV, con persistenza di genomi virali a livello epatico (8). Nonostante la quantificazione dell'Anti-HBc sia uno strumento promettente per il futuro della diagnostica dell'infezione da HBV, la mancanza di un saggio commercialmente disponibile e la scarsità di dati in merito, ne limitano ancora un uso esteso nella pratica clinica.
In definitiva, ad oggi, un appropriato utilizzo congiunto dei test virologici molecolari e sierologici costituisce un punto nodale nella gestione dell'infezione da HBV: in primis per una corretta diagnosi e stadiazione dell'infezione; in secondo luogo, per impostare un'adeguata strategia di monitoraggio e/o terapeutica ed, infine, per identificare i pazienti a più alto rischio di progressione della malattia


© RIPRODUZIONE RISERVATA