Medicina e ricerca

Fumetti, una cura metafisica

di Donatella Lippi (Storia della Medicina - Università di Firenze)

Sul British medical journal 2010.340, oltre all’articolo di Green MJ, Myers KR. Graphic medicine: use of comics in medical education and patient care, è presente un altro articolo di Joe Knight, year 10, Fortismere school, north London: Understanding disease: the ninjas are with you. Un bambino di dieci anni ha curato la recensione di una serie di libri a fumetti su diverse patologie, rivolti a suoi coetanei.

Dopo la Narrative medicine, si afferma la Graphic medicine, un campo di applicazione del fumetto, ma anche movimento culturale trasversale, composto da figure professionali e artistiche, coinvolte in varie forme attorno al medium. Medici, operatori e artisti impiegano il fumetto nella relazione di cura e nella stessa formazione di nuovi professionisti, ma, soprattutto, il fumetto diventa un modo per testimoniare la propria esperienza di “narratore ferito”, per rielaborarla, per condividerla oppure esorcizzarla.
«Perché a me?» si chiede Roberto Recchioni, sceneggiatore e disegnatore, “malato esperto” in una vignetta, in cui ritrae se stesso, in un letto di ospedale; e una voce fuori campo gli risponde: «E perché non a te?». A Roberto Recchioni si deve, tra l’altro, soggetto e sceneggiatura di Mater morbi (Dylan Dog n. 280).
Johnny Freak, Insonnia, L’autopsia, Morte rossa, Fra la vita e la morte
... e poi la morte per Aids di Bree Daniels, la Trilogia del Crepuscolo nella città immaginaria di Inverary, e la morte, che impugna la falce fienaia, presenza fisica ritratta come semplice impiegata degli inferi, che fa il suo lavoro con diligenza e dedizione... sorella della vita.
In tanti episodi, Dylan Dog, creatura di Tiziano Sclavi protagonista dell’omonimo albo a fumetti horror, costruito anche sulla base del personaggio di John Silence dello scrittore inglese Algernon Blackwood (Sergio Bonelli Ed.), ha a che fare con gli ospedali (Apocalisse, Belli da morire), la malattia, la morte.
Se, in Goblin (1990), veniva intessuta intorno alla dibattuta pratica della vivisezione una malinconica vicenda di amore e di vendetta, in Oltre la morte, Bree Daniels, che sta morendo di Aids, la donna tanto amata da Dylan Dog, si allontana, serena, tenendo per mano la morte...
Nel dicembre 2009, usciva Mater morbi: «l’indagatore dell’incubo», affetto da una malattia ingravescente, ha al suo capezzale due medici, uno che vuole mantenerlo in vita ad ogni costo e uno, che, invece, vorrebbe «non insistere».
Malattia, strazio, accanimento terapeutico e dolce morte: una storia forte che, negli anni di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, ha avviato un dibattito molto acceso, sia sulla stampa, sia nelle stanze della politica. Il finale fantasy non era riuscito a stemperare uno dei grandi dilemmi etici della medicina: la storia, dura e angosciante, di un incubo reale che colpisce al cuore.
Una storia dotta, profonda: il piccolo Vincent, portatore di una malattia unica, che lo trasforma in un “vivo morente”, citando Wittgenstein, dirà che «la cosa peggiore da fare con le malattie è ribellarsi». L’accettazione della sofferenza è il cardine intorno a cui ruota la vicenda.
«Perché a me?»
Vincent ammetterà che la filosofia “talvolta aiuta”: la malattia, infatti, nelle parole di Emil Cioran è «un accesso involontario a noi stessi, ci assoggetta alla “profondità”, ci condanna ad essa. - Il malato? Un metafisico suo malgrado».
Drammatica, la constatazione nel fumetto, che «la malattia mette chi ne viene colpito al di fuori del consorzio umano, e per quanto amici e parenti possano volerti bene, nella parte più atavica del loro cervello ci sarà sempre un uomo delle caverne ansioso da allontanarsi dall’animale infetto che sei diventato...».
Per dirla con Susan Sontag, è il linguaggio metaforico della medicina che trasmette la nozione di malattia come colpa, “vergogna”, che coinvolge i comportamenti e le tipologie psicologiche dei singoli e dei gruppi.
«Perché a me?» La malattia, “lato notturno della vita”, torna in Mater dolorosa (ottobre 2016, n.361), come “male oscuro”, da cui “solo la scienza può salvare”: l’obiettivo è la creazione di un vaccino, per “essere più forte di ogni malattia”, per “superare i confini della vita”.
Da sempre, dalla religione alla filosofia, passando per l’arte e la narrativa, l’uomo ha cercato di spiegare o aggirare la morte, creando un’eternità legata alla Fama o all’Armonia, a quella “forza operosa” che, trasformando tutte le cose, “le affatica di moto in moto”... (U. Foscolo).
Alla morte umana, derivata dal peccato “ereditato” (1 Corinzi 15:22), la scienza contrappone oggi la ricerca dell’immortalità: non a caso, il settimanale «Newsweek», nel 2015, ha dedicato una copertina, intitolata «Never Say Die», ai miliardari che stanno investendo nella ricerca scientifica dedicata alla vita eterna.
Per prime, alcune cellule. Si chiamava Henrietta Lacks: era una ragazza di colore discendente da una famiglia di schiavi. Era malata di tumore. Nel 1951 furono prelevate dalla sua cervice uterina alcuni campioni.
Grazie a queste cellule - oggi identificate con le prime lettere del suo nome e del suo cognome, HeLa - sono stati condotti esperimenti prima irrealizzabili, che hanno portato, fra l’altro, alla realizzazione del vaccino contro il Papilloma virus e all’identificazione dell’enzima telomerasi, determinante nella replicazione delle cellule cancerose.
Sono unità biologiche straordinarie, dotate di caratteristiche particolari, tali per cui sono in grado di replicarsi in laboratorio, vivendo per un periodo relativamente lungo anche in assenza di terreno di coltura.
Le prime cellule umane “immortali”.
Ma, come insegna Cesare Pavese, l’immortalità è una voce complessa: «Immortale è chi accetta l’istante. Chi non conosce più un domani».


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