Medicina e ricerca

Alzheimer, non solo farmaci: le chance degli interventi cognitivo-comportamentali

di Stefano Govoni (Ordinario di Farmacologia Università di Pavia)

Ogni anno, da diversi anni, attorno al 21 settembre, in occasione della giornata sulla malattia di Alzheimer, ho l'imbarazzo di comunicare al pubblico a cui parlo che la terapia risolutiva non esiste ancora e che i lanci di notizie sporadicamente comparsi in corso d'anno sui giornali o su internet, di cui il pubblico tiene nota e chiede regolarmente conto, riflettevano il facile e ingenuo entusiasmo per nuove ma non risolutive scoperte. Dobbiamo parlare di fallimento della ricerca? No! Sono stati fatti molti progressi nelle conoscenze che non si sono ancora tradotti in farmaci clinicamente utili, ma che sono la base necessaria per lo sviluppo futuro.
Mettiamo un po’ di ordine e di date. Le prime informazioni sulle basi biologiche della malattia, concentrati soprattutto la perdita di un neurotrasmettitore, l'acetilcolina, risalgono alla metà degli anni 70. I primi farmaci clinicamente approvati per il trattamento della malattia e capaci di impedire la degradazione del neurotrasmettitore, gli inibitori dell'acetilcolinoesterasi (donepezil, rivastigmina, galantamina) sono stati approvati tra i primi anni 90 e il 2000. Da allora poco altro: memantina, attiva nel bloccare un neurotrasmettitore potenzialmente neurotossico, il glutammato, attorno al 2003. Poi più nulla.
Una considerazione: questi farmaci hanno in parte deluso perché migliorano alcuni sintomi della malattia, ma col progredire della stessa perdono di incisività e non tutti i pazienti rispondono ad essi. Detto questo, va notato che una non perfetta comunicazione e competenza fa sì che i farmaci siano utilizzati poco e male (parlo per esperienza diretta di indagini condotte e pubblicate sulla stampa scientifica internazionale), la loro azione va rivalutata.
Quando alla metà degli anni Ottanta è stata scoperta una proteina che si deposita nel cervello dei pazienti colpiti da malattia di Alzheimer in grandi quantità, si sperava di aver trovato una delle cause della malattia e, a partire dal 2000, sono stati valutati nuovi farmaci contro questa proteina. Purtroppo era stata sottovalutata la complessità della biologia di amiloide e i farmaci capaci di rimuovere i depositi di amiloide non hanno dato risultati clinici validi. È possibile che sottogruppi ristretti di pazienti rispondano al trattamento, ma si tratta di indagini ancora in corso. Si ferma tutto qui? No, ma la stima fatta da specialisti dello sviluppo di farmaci è che è difficile che vengano approvate nuove molecole a breve.
Nel frattempo sono stati fatti tanti altri progressi sul piano della diagnosi e dell'impiego di interventi non farmacologici. La diagnosi è migliorata per precisione e per tempestività, fatto importante per impostare le strategie di intervento e per pianificare la vita.
Gli interventi non farmacologici sono stati estesamente sviluppati e studiati. Può sembrare strano che un farmacologo (chi scrive) dedichi una così grande attenzione a questi aspetti. Va sottolineato però che il farmaco, tranne forse antibiotici antibatterici e antivirali, non agisce mai da solo. Va accompagnato, soprattutto nel caso delle malattie psichiatriche, da altre misure a sostegno della persona e solo in tali condizioni può dare luogo agli esiti migliori. Inoltre studi sperimentali di molti anni fa dimostrano che modificazioni dell'ambiente e interventi sul comportamento hanno precisi correlati neurobiologici, oggi verificati anche nell'uomo mediante studi di neuro-immagini.
L’uso degli interventi non farmacologici, non riflette un banale “buonismo” volontaristico, ma è stato verificato in studi controllati. Una adeguata letteratura scientifica prova il valore per la prevenzione e per la terapia di una corretta alimentazione, di una adeguata attività fisica, di un adeguato controllo delle comorbilità. In terapia sono stati valutati e documentati gli esiti di diverse tipologie di interventi cognitivo-comportamentali e della riabilitazione cognitiva, le metodologie sperimentate sono molte e sarebbe qui troppo lungo descriverle e vagliarle tutte.
L'informazione fondamentale è che si tratta di tecniche specialistiche che devono essere state validate e pubblicate, che richiedono personale adeguatamente preparato e che vanno adattate alle caratteristiche del paziente dopo un'accurata anamnesi dei suoi disturbi specifici. Un esempio per tutti: un’attività di stimolazione cognitiva non adatta per un certo paziente, perché oltre le sue capacità di risposta, può renderlo agitato ed essere controproducente. Inoltre occorre controllare che la terapia cognitivo-comportamentale e quella farmacologica siano compatibili. Porre la persona al centro significa considerarne tutti gli aspetti in una visione integrata!


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