Medicina e ricerca

Epatite C, eradicarla si può

di Massimo Andreoni (professore ordinario di Malattie Infettive all'Università Tor Vergata di Roma, Direttore Scientifico Simit)

I più recenti dati dell'Agenzia italiana del Farmaco (Aifa) confermano che in Italia, negli ultimi due anni, sono stati trattati con i nuovi farmaci antivirali di ultima generazione quasi 100mila soggetti con l'infezione da virus dell'epatite C (Hcv).
L'enorme sforzo di sanità pubblica che è stato fatto in questi ultimi mesi nasce dall'osservazione che, diversamente da quanto osservato per il virus dell'epatite B (Hbv), Hcv si dimostra eradicabile con la terapia antivirale in una percentuale estremamente elevata di pazienti. Infatti, i dati dei trial clinici, che sono stati confermati da quelli della “real life”, testimoniano che è possibile eradicare l'infezione in più del 90% dei soggetti trattati.
Si deve inoltre ricordare che l'avvenuta eliminazione dell'infezione non riduce soltanto il rischio delle complicanze a livello epatico, quali la cirrosi e l'epatocarcinoma, ma riduce anche il rischio di altre comorbidità che si associano spesso all'infezione cronica da Hcv quali infarto del miocardio, ictus cerebrale, insufficienza renale, tumori.
Per tali motivi la terapia oggi è consigliata in tutte le persone infettate dal virus in considerazione che questa strategia rappresenti un buon investimento per la sanità pubblica con un marcato risparmio in termini di spesa a breve e medio termine.
Secondo i dati dell'Istituto superiore di sanità, in Italia si è registrata una drastica flessione nell'incidenza dell'epatite da Hcv nel periodo compreso tra il 1985 ed il 2000. L'incidenza ha confermato un trend in diminuzione fino al 2009, quando si è stabilizzata su tassi attuali compresi tra 0,2 e 0,3 per 100.000 abitanti. Nel 2014 l'incidenza è stata di 0,2 per 100mila (0 per la fascia d'età 0-14 anni; 0,2 per la fascia d'età 15-24 e 0,3 ≥25 anni). I soggetti in cui si è riscontrata la maggiore diminuzione di incidenza sono stati quelli di età compresa fra i 15 e i 24 anni, verosimilmente per cambiamenti comportamentali da parte dei tossicodipendenti, con un aumento dell'età dei nuovi casi (da due anni la fascia di età maggiormente colpita è stata quella 35-54 anni) e una riduzione del coinvolgimento del sesso maschile, anche se nel 2014 i maschi rimangono maggiormente colpiti (59%).
L'uso di droghe per via iniettiva rappresenta il principale rischio di trasmissione dell'infezione da HCV nei paesi industrializzati. Studi di prevalenza nei tossicodipendenti (sia ex che attivi), condotti in 77 Paesi, hanno rilevato che il 60-80% di tutti i nuovi casi di infezione avviene proprio tra i PWID (People Who Inject Drugs), rendendo questa categoria di pazienti una popolazione chiave per il controllo della trasmissione del virus in una politica che miri all'eradicazione della malattia. Delle 71 milioni di persone con infezione cronica da HCV, infatti, almeno 7.5 milioni appartengono alla categoria PWID. Inoltre, anche l'uso di droghe non iniettabili è stato riconosciuto come un importante fattore di rischio per l'HCV, soprattutto per quanto riguarda l'uso e la condivisione di inalatori intranasali.
Ovviamente in questi soggetti il fattore di rischio determinate nella trasmissione è la condivisione di aghi e siringhe contaminate ma un'importante percentuale di infezioni (più del 20%) resta ancora non spiegata. Negli ultimi anni, quindi, è cresciuta l'attenzione nei confronti dei kit utilizzati nella preparazione delle droghe iniettive come mezzo di contagio. Esiste senza dubbio la possibilità di trasmettere l'infezione attraverso la condivisione di fornelli (ad esempio, tappi di bottiglia, cucchiai e altri contenitori per sciogliere la droga), cotone (usato come filtro quando la sostanza viene aspirata nella siringa) e l'acqua utilizzata per pulire gli aghi. Inoltre, sebbene i tossicodipendenti riconoscano l'effettivo rischio di contagio attraverso gli aghi, pochi conoscono e riconoscono che l'infezione possa avvenire con la condivisione dei kit di iniezione.
E' ormai consolidato da numerosi studi che, con i nuovi farmaci antivirali, i tassi di guarigione dall'epatite C che si riescono ad ottenere nei tossicodipendenti sono del tutto simili al resto della popolazione e comunque superiori al 90% dei casi trattati.
Affinché le terapie di cui oggi disponiamo abbiano un effetto concreto all'interno di questa “key population”, sono necessari interventi mirati a facilitare sia l'esecuzione dei test per l'HCV che l'ingresso ai programmi di cura e trattamento. Esistono diverse prove teoriche ottenute attraverso modelli matematici che il trattamento dell'infezione da HCV nei tossicodipendenti è in grado di ridurre l'incidenza e la prevalenza dell'epatite cronica C.
Alcune valutazioni economiche, inoltre, hanno suggerito che il trattamento di questa popolazione ad alto rischio è economicamente efficace e che in alcuni scenari il loro trattamento potrebbe essere, addirittura, più conveniente rispetto al trattamento di pazienti allo stesso stadio di malattia ma senza un effettivo rischio di trasmissione.
Nonostante quanto detto fino ad ora, l'accesso al trattamento per l'HCV nei tossicodipendenti rimane basso. Molti studi hanno dimostrato che i medici sono riluttanti a trattare queste persone a causa del rischio che questi corrono nel reinfettarsi, per il timore di una bassa aderenza al trattamento e per le comorbidità psichiatriche, sia dal punto di vista clinico che per le possibili interazioni farmacologiche con i farmaci per HCV. Infine, spesso i pazienti stessi rappresentano un ostacolo, poiché sono i primi che non cercano un trattamento per la grande disinformazione riguardo l'infezione, paura degli effetti collaterali dovuti al trattamento e ansia di essere discriminati.
In questo scenario i centri di malattie infettive si stanno prodigando nel trattamento di alcune popolazioni particolarmente fragili quali non solo i soggetti che fanno uso di droghe per via endovenosa ma anche i pazienti con coinfezione da HCV e HIV.
Ed è di poche settimane fa l'avvio di una campagna per l'eradicazione dell'infezione da HCV in questa popolazione lanciata dal nuovo Presidente della SIMIT, Prof. Massimo Galli. ordinario di Malattie Infettive in Milano e Direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche Luigi Sacco
Per tutti questi motivi l'Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene che i tossicodipendenti rappresentino il target principale per qualsiasi strategia di eradicazione dell'HCV partendo dall'idea che trattando la maggior parte di questi soggetti si può ottenere una drastica riduzione della circolazione del virus. La strada per l'eradicazione dell'infezione da HCV è ormai segnata e la rete italiana dei centri di Malattie Infettive è pronta a svolgere un ruolo fondamentale in questo percorso.In conclusione, la terapia dell'infezione da HCV ha fatto negli ultimi tempi enormi progressi per cui l'ipotesi di trattare il maggior numero possibile di pazienti diventa una reale necessità al fine di avere un impatto favorevole non solo sull'evoluzione della malattia nel singolo paziente ma anche in termini generali nella popolazione con riduzione della prevalenza dell'infezione.


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