Medicina e ricerca

Cyberdipendenze: detox e regole condivise in famiglia

di Giuseppe Lavenia (presidente Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo)

Le dipendenze tecnologiche, da internet, smartphone e tablet, saranno le malattie mentali del futuro. Sono sindromi variegate, piene di sfumature, che richiedono una costante attenzione, osservazione, valutazione e analisi da parte degli esperti del settore che già da anni se ne occupano. Perché compromettono sempre di più la vita sociale, famigliare, scolastica e lavorativa, andando ad alterare tutti i ritmi biologici dell'individuo.
Secondo un recente sondaggio online condotto dall'Associazione Di.Te., di cui sono presidente, su un campione di 500 persone (250 donne e 250 uomini) di età compresa tra i 15 e i 50 anni emerge che il 51% dei ragazzi tra i 15 e i 20 anni ha difficoltà a prendersi una pausa dalle nuove tecnologie, controllano in media lo smartphone 75 volte al giorno e il 7% di loro lo fa fino a 110 volte al giorno, ammettendo inoltre di non riuscire a prendere una pausa dal device di almeno 3 ore nel 79% dei casi.

Cedono anche alla tentazione del Vamping, il bisogno di guardare lo smartphone, magari per chattare durante le ore in cui dovrebbero dormire. Gli adulti non sono così distanti dai giovani, il 49% degli over 35 non sa stare senza cellulare, verifica se sono arrivate notifiche o messaggi almeno 43 volte al giorno, di cui un 6% arriva a sfiorare le 65 volte, e di stare 3 ore senza buttare un occhio sullo schermo non se ne parla per il 58% di loro.

A questo punto risulta naturale chiedersi se siamo tutti dei soggetti potenzialmente a rischio dipendenza. L'esperienza clinica ci fa dire che chi ha un'identità meno strutturata, tendenzialmente, è sicuramente più a rischio. Ecco perché gli adolescenti corrono un pericolo maggiore. Chi ha una diagnosi psichiatrica di un disturbo depressivo, di ansia sociale o dell'umore può cadere vittima di una nuova dipendenza perché crede di trovare nella tecnologia un rimedio a una fobia, per esempio. Anche se non esiste un vero e proprio tratto predisponente, dai nostri studi abbiamo notato che il tratto schizzoide, cioè le persone che tendono ad avere un tratto di personalità più chiuso, più introverso, sono più soggette. Così come lo è chi è più impulsivo: le nuove tecnologie, infatti, hanno la caratteristica di soddisfare i bisogni di queste persone permettendo loro di fare tutto e subito.
Sicuramente sono i giovani di oggi, i giovani 3.0, a rispecchiare questi tratti, sono molto più impulsivi, hanno grande difficoltà a gestire la noia e la solitudine, e sono orientati al tutto e subito. Sono meno creativi, non sentono il bisogno di verificare le fonti da cui traggono notizie o a fare ricerche per controllare se quello che hanno letto è vero. Dobbiamo osservarli oggi e non fare proiezioni catastrofiche sul futuro, possiamo fare molto per loro, ma a partire da oggi, dal presente. Stiamo andando verso un'identità digitale e la costruzione della loro personalità avviene anche in base all'uso che fanno della rete. Dovremmo insegnare il valore dell'impiego del tempo…
È importante prestare attenzione a quei segnali che dovrebbero metterci in allerta. Le sfaccettature sono tante ed è importante differenziare ogni singola dipendenza però, in generale, ci sono dei segni caratteristici uguali per tutte. Sono l'alterazione del ciclo sonno-veglia, il mutare della condivisione sociale offline, il modificarsi di alcuni tratti caratteriali. In breve, si potrebbe dire che quando c'è un'alterazione delle abilità relazionali e sociali bisogna fermarsi e interrogarsi su cosa ci sta succedendo. Rischioso è l'isolamento sociale, quando si arriva all'alienazione fino a diventare Hikikomori, rinchiusi nella propria stanza rifiutando la scuola e ogni contatto che non preveda l'uso mediato del mezzo tecnologico.
I soggetti che soffrono di dipendenza tecnologica sono, inoltre, caratterizzati da un pericoloso aumento dell'indifferenza del dolore altrui: tutto quello che si fa lo si vuole condividere subito. Senza pensare alle conseguenze che ricadranno su di sé né tantomeno sugli altri. La tecnologia ci permette di vivere tutto in modo in modo mediato, anche la paura e o un evento traumatico, e quindi di non viverlo sulla pelle, perché il corpo in questa dimensione non è presente. Non ci sono emozioni in quello spazio virtuale, e nulla è realmente condiviso. È mostrato, punto. Si è centrati sul bisogno immediato: “Voglio pubblicarlo, lo faccio”, è un istinto che bisogna assecondare subito, senza pensare.


© RIPRODUZIONE RISERVATA