Medicina e ricerca

Dentro l'8 marzo/ Graziella Pellegrini, pioniera delle staminali: «Ricerca italiana bloccata dalla burocrazia»

di Rosanna Magnano

La genovese Graziella Pellegrini è una donna di scienza, madre di due ragazze. Tra i pionieri dell’uso delle cellule staminali epiteliali nella medicina rigenerativa, professore associato di Biologia applicata all’Università di Modena e Reggio Emilia, coordinatrice della terapia cellulare al Centro di Medicina rigenerativa “Stefano Ferrari” nonché direttrice e cofondatrice di Holostem terapie avanzate, uno spin off della stessa università.
A svegliarla ogni mattina è la grande passione per quello che fa. Una forza che le viene da un desiderio, non esattamente da tutti: restituire la vista ai ciechi. E non si tratta di manie di grandezza. Il più classico dei miracoli, in parte le è già riuscito. È lei che qualche anno fa ha inventato Holoclar, il primo farmaco a base di cellule staminali della storia, frutto di una partnership tra pubblico e privato con Chiesi farmaceutici – l’azienda italiana che investe di più in innovazione con il 22% del suo fatturato (1,7 mld nel 2017, in salita dell’8%) destinato a R&S - in grado di ricreare una cornea a partire da una biopsia di un millimetro quadrato. Una terapia usata per pazienti che hanno subito gravi ustioni causate da incidenti sul lavoro o domestici. Oppure per salvare la vista di donne vittime di terribili episodi di violenza di genere, nei casi di aggressioni con l’acido. «Queste cose non accadono solo alle donne. Abbiamo curato anche un avvocato greco, aggredito dalla mafia, venuto apposta in Italia, che poi ha potuto portare a termine il processo contro i criminali che avevano tentato di fermarlo», racconta la ricercatrice.

Come è nato il progetto di ricerca?
Tanto tempo fa, quando ancora non esistevano regolamenti sulle terapie avanzate - sostanzialmente ricostruzione di tessuti e organi e terapia genica - seguendo le norme di allora abbiamo sperimentato il prodotto su alcuni pazienti e abbiamo visto che funzionava e restituiva loro la vista. Poi con le nuove regole europee, che richiedono di fatto la presenza di un’industria, per certificare un laboratorio e avere le figure professionali giuste, che nell’accademia non esistono, avremmo dovuto buttare tutto. Quindi abbiamo pensato di parlare con alcuni imprenditori per vedere se questo prodotto poteva essere sviluppato in partnership. E Chiesi farmaceutici decise di sposare questo progetto. Insieme avevamo tutte le competenze necessarie, il profilo scientifico e le buone pratiche della produzione farmaceutica. E ci siamo buttati anima e corpo.

Con quali risultati?
Normalmente per arrivare alla registrazione di un nuovo farmaco servono tra i nove e i dodici anni, noi ne abbiamo impiegati sei e nel 2015 è arrivata l’autorizzazione Ue. Nonostante fosse un prodotto difficile, il primo a base di staminali garantite.

A cosa si deve questa accelerazione?
A due motivi. Intanto, abbiamo messo insieme un team multidisciplinare che ci ha consentito di avere tutte le competenze necessarie. In secondo luogo, può sembrare banale: per il grande entusiasmo e la ferrea volontà di portare avanti il progetto, che era stato un grande caso di successo di terapia cellulare veramente fuori scala, con pazienti che avevano ripristinato completamente la condizione di partenza.

Il prodotto è diventato “famoso” anche perché ha aiutato le donne sfregiate, vittime della orribile violenza del danno chimico
Sì. La cicatrice sul viso, con tanti interventi di chirurgia plastica e sofferenza, si poteva pensare piano piano di risolverla. La perdita della vista, con la distruzione della cornea, no. Ora da tempo ci basta che sia risparmiato un millimetro in uno dei due occhi e possiamo ricostruire entrambe le superfici corneali. È una grande speranza.

La ricerca non è sempre un mondo facile, soprattutto in Italia. Che cosa consiglierebbe a una giovane ricercatrice?
La cosa più semplice, di credere prima di tutto in se stessa. Perché spesso cercano di convincerti che siccome sei una donna non ce la puoi fare, perché magari hai anche altri ruoli. Quello che io dico sempre alle mie collaboratrici è: tu sei una donna, quindi la natura ti ha costruito per fare dieci volte le cose che fanno gli altri, sei stata programmata per difendere la specie e custodire i cuccioli. La donna è multitasking. Avere dei figli non è un minus, è un plus. Perché si è in grado di fare moltissimo con la gioia e la forza della maternità. Si cade e ci si rialza. Mai scoraggiarsi. Certo ci sono rinunce da fare e servirebbe un maggiore supporto della società.

Come ha fatto con le sue figlie?
Le ho sempre coinvolte nelle avventure che affrontavo. Spiegavo loro perché non c’ero, che cosa stavo facendo e perché fosse importante. E le mie figlie sono cresciute contente e orgogliose. Non è stato percepito come un abbandono, il tempo con la mamma a cui hanno rinunciato è stato per qualcosa di utile.

A cosa sta lavorando adesso?
Io e il mio team stiamo per partire con due nuove sperimentazioni cliniche di fase I: una per la cecità bilaterale totale, cioè quando non abbiamo neanche il millimetro di biopsia da prendere per ricostruire la cornea. Ora dobbiamo sottoporre la documentazione all’Aifa e vedremo se il progetto sarà finanziato. Il secondo trial riguarda la ricostruzione dell’uretra in uomini che nascono con una malformazione che gli impedisce di avere una vita normale.

Che cosa chiederebbe al nuovo Governo per facilitare la ricerca italiana?
Più che chiedere fondi, che comunque sarebbero utili, prima di questo sarebbe fondamentale semplificare le procedure. Dare una maggiore flessibilità d’azione per consentire alle persone che lavorano in questo settore di abbattere i costi e migliorare la produttività. Perdiamo la maggior parte del nostro tempo in strettoie burocratiche invece di dedicarlo allo studio e alla sperimentazione. Il sistema è esageratamente e in maniera ridicola complesso. Una serie di regole che dovrebbero garantire la trasparenza nelle strutture pubbliche, non la garantiscono affatto. Ma complicano il lavoro in maniera assurda decuplicando i costi. I ricercatori impiegano più tempo per ordinare un reagente che per fare un esperimento. È assurdo. Se il Governo cambiasse il metodo, è come se ci desse fondi in più. In Italia abbiamo un sistema farraginoso. Per arrivare a un risultato dobbiamo impiegare molto più tempo degli altri e non siamo competitivi. Così non va.


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