Medicina e ricerca

Le neuroimmagini sono fotografie dei nostri pensieri?

di Fiorenzo Conti *

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24 Esclusivo per Sanità24

Le tecniche di imaging, di cui la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è la più nota e utilizzata, hanno concorso allo sviluppo delle neuroscienze, soprattutto di quelle cognitive. Le immagini colorate e spettacolari che vengono generate hanno anche contribuito al dialogo tra neuroscienziati e studiosi di altre discipline e alla diffusione delle neuroscienze tra i non-specialisti, oltre ad essere ormai un must ornamentale in molti giornali.
Queste tecniche si basano nella maggior parte dei casi sulla misurazione di parametri correlati al flusso di sangue nel cervello, che varia in funzione del grado di attività. Il pioniere di questi studi fu Angelo Mosso (1846-1910), che studiò pazienti nei quali, a causa di lesioni craniche, era possibile osservare le oscillazioni cerebrali determinate dalle variazioni del flusso ematico. Il più famoso di questi pazienti fu Michele Bertino, un contadino colpito in testa da un mattone, scivolato dalle mani di un muratore che lavorava sul campanile, che gli provocò una lesione tale da rendere visibile la superficie cerebrale. Se Bertino dormiva, si vedevano piccole oscillazioni che aumentano di ampiezza sia quando Mosso lo chiamava, risvegliandolo, sia se si verificava un rumore, per esempio il suono della campana. Ma ancora più straordinaria fu la dimostrazione che variazioni dello stato emotivo o l’esecuzione di un calcolo aumentavano le oscillazioni. La conclusione fu chiara: l’aumento di attività cerebrale determinava l’aumento del flusso sanguigno. L’implicazione altrettanto: esiste una correlazione tra fenomeni mentali e fenomeni fisici.
Dopo quasi un secolo di studi (coronati dal Nobel 2003 per la Fisiologia o la Medicina a Lauterbur e Mansfield), all’inizio degli anni ’90 del XX secolo furono pubblicati i primi studi di fMRI. La tecnica è straordinariamente complessa, essendo basata su difficilissime ricostruzioni (non scevre da possibili errori) e su un’analisi statistica molto elaborata che è stata recentemente messa sotto scrutinio. Uno studio del 2016 ha infatti dimostrato che i più comuni software utilizzati per l’analisi delle immagini producono una percentuale elevatissima di falsi positivi, cioè di segnali considerati indice di attivazione neuronale senza esserlo, un dato che, se confermato, invaliderebbe circa 40.000 studi di fMRI. Un po’ come l’attivazione cerebrale dimostrata nel caso del famoso studio di fMRI eseguito su un salmone morto a cui venivano presentate espressioni di visi umani, che è valso all’autore un trionfo al Sanders Theatre, l’auditorium di Harvard, quando per questa ricerca gli fu assegnato l’IgNobel Prize 2012 per le Neuroscienze. Come tutte le tecniche, anche la fMRI, spudoratamente propagandata come la tecnica risolutiva nello studio del cervello, ha i suoi limiti. Che devono essere conosciuti.
Ciò che si vede in un’immagine di fMRI è una macchia o una serie di macchie colorate nel cervello (“l’attivazione”), generalmente in risposta ad uno stimolo esterno o ad un compito “mentale”. Il messaggio, che viene veicolato al grande pubblico e/o che come tale viene recepito, è che la macchia colorata indichi la regione del cervello, più spesso della corteccia cerebrale, responsabile di quella funzione. Questo è profondamente falso, perché ogni regione corticale è connessa a numerose altre e quando una regione è attiva, a cascata ne vengono attivate numerose altre. E, soprattutto, questo induce nel non-specialista l’idea che il cervello sia un organo fatto da numerosi sub-organi, ognuno dei quali è responsabile di una specifica funzione, un’idea che assomiglia pericolosamente alla concezione del cervello che si aveva all’inizio dell’800 e che si concretizzò nella celeberrima dottrina della frenologia.
Uno dei problemi legati alle tecniche di imaging che solleva interrogativi e timori è che possano essere utilizzate per leggere (mind-reading) e utilizzare per fini impropri (mind-hacking) il “contenuto” della nostra attività mentale. Come detto, la tecnica non è scevra da limitazioni e globalmente sappiamo troppo poco delle funzioni cerebrali per temere che questo accada ora. I pochi studi eseguiti sinora sembrano indicare che è possibile provare a decodificare grossolanamente il contenuto di immagini statiche e, in un caso, di frasi, ma questi studi non sono stati validati. È però ragionevole ipotizzare che le limitazioni tecniche saranno rimosse (e che altre neurotecnologie, soprattutto quelle basate sul cosiddetto brain-computer interface, facciano grossi passi avanti) ed è quindi possibile che, con l’aumento delle conoscenze ottenute con altre tecniche, in un futuro non troppo distante il problema possa porsi seriamente in tutta la sua gravità, per la fortissima spinta di enormi interessi commerciali e militari (senza dimenticare le aspettative in ambito forense per il mind-reading). Anche se adesso non sembra sostenibile l’ipotesi che si possa leggere il contenuto dei nostri pensieri (e probabilmente nemmeno delle nostre percezioni: potranno dire che sto guardando con piacere un quadro colorato mentre passeggio in un museo, ma non se il quadro è di Cezanne o di Gaugin; e non se il piacere è legato al blu del cielo o al blu di un abito). Nel frattempo, bisogna riflettere sul problema, come stanno facendo numerosi studiosi in varie parti del mondo, e prepararsi così a difendere il più fondamentale dei diritti umani, la libertà di pensiero (qui nell’accezione di libertà cognitiva, privacy mentale, continuità psicologica etc..), per esempio con una Dichiarazione Universale simile a quella ratificata nel 1997 in risposta ad analoghi timori legati all’introduzione di potenti tecnologie genetiche. E, al tempo di Cambridge Analytica, non postare la propria fMRI su Facebook.

* Università Politecnica delle Marche
Past-President della Società italiana di Neuroscienze (SinsINS)


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