Medicina e ricerca

Infarto, la ricerca italiana fissa nuovi standard prognostici e di cura

di Giuseppe Tarantini *

S
24 Esclusivo per Sanità24

Con lo studio Dubius la ricerca italiana fa scuola a livello mondiale e ridefinisce nuovi standard di trattamento e prognostici della forma più frequente d’infarto, quella in cui l’arteria non è completamente ostruita (NSTEMI). Abbiamo dimostrato che una strategia invasiva, entro le 24 ore dall’evento e con approccio radiale (dal polso) incide sui risultati più di quanto faccia la tempistica della terapia farmacologica e rende superflua l’annosa discussione sulla necessità di un trattamento antiaggregante a monte (tutti i pazienti) o a valle (trattamento selettivo) della rivascolarizzazione. Il lavoro late breaking, presentato oggi al congresso online della Società Europea di Cardiologia e simultaneamente pubblicato su JACC, Journal of the American College of Cardiology è uno studio spontaneo e indipendente, iniziato nel 2015, valutato e autorizzato da Aifa, patrocinato e finanziato dal Gise e condotto su 1500 pazienti in 30 centri d’eccellenza, distribuiti in tutta Italia. Volevamo individuare la strategia di trattamento farmacologico più efficace e sicura nelle fasi che precedono la coronarografia, l’angioplastica coronarica e il bypass aorto-coronarico. Era necessario valutare in modo rigoroso le implicazioni cliniche dell'approccio farmacologico più comunemente utilizzato, il cosiddetto pretrattamento che viene applicato a tutti i pazienti fin dal primo sospetto diagnostico di infarto.
Il Dubius lo ha confrontato con una strategia selettiva, basata sulla somministrazione di un antiaggregante solo dopo la certezza della diagnosi ottenuta dalla coronarografia. L’attuale pratica clinica italiana, con coronarografia effettuata entro 24 ore dall’infarto NSTEMI ed eseguita da accesso radiale ha garantito eccellenti risultati in entrambi i gruppi di studio, che hanno reso di fatto superfluo un ulteriore confronto tra le due strategie di trattamento farmacologico antiaggregante, nessuna delle quali può essere raccomandata come approccio routinario. Piuttosto, vi deve essere un percorso personalizzato che individui la migliore strategia per il singolo paziente.
Con i risultati del Dubius potremo evitare a circa 80.000 italiani, colpiti ogni anno da infarto subendocardico, una somministrazione a tappeto di potenti antiaggreganti prima della coronarografia, con una riduzione di potenziali effetti collaterali e notevoli ricadute sull’appropriatezza delle cure. Pensiamo solo a chi, in corso di infarto NSTEMI deve sottoporsi a bypass coronarico, circa il 6%: al momento i tempi di attesa, per chi ha avuto un precedente trattamento antiaggregante, sono di 5-7 giorni. Giornate che il paziente trascorre in ospedale, aumentando rischi di complicanze e costi di gestione. Tempi che, se il paziente non è stato pretrattato, possono essere quasi azzerati.
Nell’era Covid-19 un risultato ancora più prezioso per la pratica clinica. E pensiamo ancora a quel 15% di accessi per infarto cui, in seguito a coronarografia, non viene confermata la diagnosi, ma che sinora veniva sottoposto a pretrattamento antiaggregante. A distanza di circa 20 anni dal celebre studio GISSI, la Cardiologia Interventistica italiana (Gise) si distingue a livello internazionale per una sperimentazione clinica in grado di influenzare le pratiche di trattamento dell’infarto.
I risultati del Dubius contribuiscono a mettere la parola fine all’interrogativo che da sempre è motivo di dibattito nel mondo della cardiologia sull’opportunità di somministrazione di antiaggreganti prima o dopo la conferma della diagnosi con la coronarografia. Si tratta di un’indagine destinata a rivoluzionare gli standard di trattamento e prognosi rispetto a tutti i precedenti studi internazionali e che potrà avere importanti ricadute, considerato che ogni anno nel mondo si registrano 15 milioni di infarti e 7 milioni di morti per malattie delle coronarie, principalmente legate a attacco cardiaco. Il Dubius ci dice anche, forte e chiaro, che sull’infarto l’Italia è best in class, con risultati che riducono gli eventi avversi a meno della metà rispetto al resto del mondo: 2 su 100 trattati contro i 7 a livello globale. E ci rivela inoltre che la ricerca e la pratica clinica nel nostro Paese sono davvero in ottima salute, forse migliore di quanto a volte siamo portati a pensare. Questo studio conferma che il farmaco senza strategia medica non basta, a volte non serve e ogni tanto è dannoso. La terapia vincente rimane il dottore e non il blister.

* principal investigator Dubius e Presidente Gise, Società italiana di Cardiologia interventistica


© RIPRODUZIONE RISERVATA