Aziende e Regioni

Rapporto Agenas: cure palliative al rallentatore. Turriziani (Sicp): più lavoro integrato e formazione universitaria ad hoc

di Barbara Gobbi e Rosanna Magnano

Il 39% delle Unità di cure palliative domiciliari (Ucp) non operano con medici dedicati e specializzati o con almeno esperienza triennale, non redige un Piano assistenziale individualizzato, non è un'articolazione organizzativa definita, non opera con infermieri dedicati. In altre parole, non rispettano alcuni tra i più importanti requisiti stabiliti dall'Intesa Stato-Regioni del 25 luglio 2012, attuativa della legge 38/2010. Solo il 19% può essere classificato di buon livello mentre il 42% soddisfa almeno i criteri minimi.

È questa la «stratificazione» delle Ucp che emerge dal Report di Agenas «Accanto al malato oncologico e alla sua famiglia: sviluppare cure domiciliari di buona qualità», presentato oggi al ministero della Salute, anticipato in esclusiva da «Il Sole 24 Ore Sanità» n. 9/2013 (VEDI per gli abbonati) .

All'indagine, che si è svolta su base volontaria, hanno aderito 177 unità di offerta di cure palliative domiciliari (di queste 132 sono con équipe dedicate), 143 realtà che forniscono supporto alla famiglia e al caregiver, 90 Uo di Oncologia, Ematologia o Onco-Ematologia che si occupano di continuità delle cure nell'ambito delle cure palliative e 8 Ucp pediatriche. Ne emerge una mappa ancora in gran parte da completare e migliorare, anche se, come avvertono dal ministero della Salute, le basi sono ormai solide.

«È chiaro che l'organizzazione e lo sviluppo delle cure palliative domiciliari - sottolinea Gianlorenzo Scaccabarozzi, vice presidente della Commissione nazionale cure palliative e terapia del dolore del ministero della Salute - rappresentano l'anello debole di un sistema ancora prevalentemente ospedalocentrico. Ma nonostante i problemi, siamo sulla buona strada e l'impegno delle Regioni non è mai venuto meno, in un percorso di attuazione della legge 38/2010 che richiede una riprogettazione complessiva del territorio, con un impatto fortissimo sull'organizzazione delle Asl».

Le buone pratiche. L'identificazione delle buone pratiche è stata effettuata per misurare le performance del sistema di protezione della persona fragile e della sua famiglia introdotto dalla legge 38/2010, in particolare, riguardo ai processi clinico assistenziali (adozione di procedure codificate, protocolli e linee guida terapeutiche e assistenziali, con attenzione al controllo del dolore e agli standard organizzativi). L'obiettivo finale è quello di avviare a breve un portale web - con un doppio livello di informazioni, uno destinato ai cittadini, un altro per gli addetti ai lavori - che sarà lo strumento operativo del progetto Osservatorio delle buone pratiche. Un'iniziativa mirata ad «aiutare le strutture erogatrici di cure palliative - si legge nel Report - a rilevare le proprie criticità, stimolandole e supportandole nella ricerca di percorsi virtuosi di miglioramento che si avvicinino progressivamente a livelli di eccellenza».

La copertura. Anche se l'indagine non ha avuto, quindi, un intento «fiscale», è chiaro tuttavia che la stessa copertura geografica delle strutture che hanno aderito all'iniziativa è già un segnale indicativo (circa il 17% degli italiani risiede in una provincia in cui non è presente alcuna unità tra quelle che hanno aderito all'indagine). Aree «non pervenute» ricorrono soprattutto in Sicilia, Sardegna, Campania, ma anche nelle Marche, in Calabria e nel Lazio. Una «zona grigia» prevalentemente nel Centro sud, in cui o le unità di offerta di cure palliative non esistono, o molto probabilmente non sono coerenti con la legge 38/2010.

Le cure domiciliari. Sul fronte delle Unità d'offerta di cure palliative domiciliari, il livello di adesione ai requisiti individuati dal board scientifico della ricerca è superiore nelle Ucp private rispetto a quelle pubbliche. Due terzi (67%) appartengono all'ambito pubblico (47% centro Asl in cui operano équipe dedicate interne e 20% centro ospedaliero/Hospice pubblico), mentre il 26% si sono qualificate come centri erogatori accreditati non profit. Delle Ucp pubbliche solo il 55% garantisce almeno i criteri minimi (quasi la metà, il 45% non assolve i criteri minimi) a fronte del 72% delle Ucp private.

Risultati complessivi. Nel complesso, i risultati del monitoraggio fanno sì che solo 55 Ucp - quelle che contemporaneamente hanno dichiarato di assolvere almeno i criteri minimi e hanno fornito dati di attività coerenti con il debito informativo stabilito dal board scientifico - sono state giudicate «eligibili» per l'Osservatorio sulle best practice.

Assistenza notturna. Il 51% delle Ucp non garantisce l'assistenza medica di notte. E non va meglio per il sostegno infermieristico, non assicurato dalle 20 in poi nel 73% dei casi. «Sia durante i giorni festivi sia di sabato e nei pre-festivi - si legge però nel Report Agenas - questo servizio è fornito più frequentemente dalle figure infermieristiche». Circa la metà delle Ucp il sabato mattina e pomeriggio garantisce la continuità assistenziale infermieristica attraverso pronta disponibilità e attività programmata, che in generale è più di frequente associata proprio ai pre-festivi e al nursing.

E sempre nelle ore notturne, è scarso il ricorso all'integrazione con il medico di continuità assistenziale e con il 118: il 37% delle Unità di cure palliative non prevede accordi specifici in questo senso. Il 34% delle Ucp dichiara invece di disporre almeno di pronta disponibilità medica notturna.

Variabilità delle Ucp. Una estrema variabilità caratterizza le Ucp individuate dal rapporto. Basta guardare i dati sull'assistenza infermieristica di sabato mattina: se nelle Ucp che soddisfano tutti i criteri il dato sfiora l'80%, in quelle che non centrano i requisiti fissati dal board scientifico sulla base della normativa la percentuale supera di poco il 40 per cento. Analoga considerazione vale per la presenza del medico: di sabato pomeriggio è garantita dal 60% delle Ucp "migliori" mentre nelle altre arriva appena al 20 per cento. Così via.

La continuità assistenziale. Una buona continuità assistenziale, soprattutto nelle ore diurne, è un fattore determinante nell'efficacia delle cure. E con ogni probabilità riflette anche le caratteristiche organizzative delle équipe: l'80% delle Ucp dispone infatti di una sola squadra di professionisti, mentre appena il 6% delle Unità può contare su più di 3 équipe. In ciascuna sono presenti 3,6 medici palliativisti e 4,8 infermieri esperti, con impegno orario settimanale inferiore ai valori assimilabili al tempo pieno (rispettivamente 23,5 ore e 26,8 ore settimanali). La figura professionale più diffusa è il medico di medicina generale (13 ogni 100 assistiti), seguita da infermieri, medici esperti di cure palliative e volontari. Il numero di operatori contribuisce a "fare la qualità" del servizio: il gruppo di Ucp senza criteri minimi ha sistematicamente un numero di operatori ogni 100 malati oncologici assistiti inferiore - del 50% se si guarda al medico, all'infermiere esperto e al numero di volontari stabilmente presenti - a quelli in staff alle Ucp che soddisfano i requisiti. In controtendenza solo i Mmg, fortemente coinvolti nell'attività organizzata dalle Ucp senza criteri minimi e «assente per più della metà delle équipe associate alle Ucp con tutti i criteri».
Continuità significa anche passaggio di informazioni: il 67% delle Ucp prevede una procedura sistematica per il passaggio di consegne relativo alle informazioni sui malati, attraverso momenti organizzati durante l'orario del servizio.

Il collegamento ospedale-territorio. Pur tenendo conto della scarsa rappresentatività statistica delle Unità operative (90 rispondenti su 592), il Report Agenas si sofferma sulla correlazione con la rete locale di cure palliative prevista dalla legge 38. Di essa si avvalgono i 2/3 delle Uo (il 67%), ma ben il 23% dichiara che non esiste alcuna rete locale (il 10% non se ne avvale), specialmente nelle Oncologie e nelle Ematologie (rispettivamente 70% e 50%). E anche quando ci si avvale della rete locale i rapporti non sempre sono formalizzati: nel 23% dei casi sono "informali".

Alta la variabilità regionale. La liaison Uo-rete di cure è molto frequente in Piemonte e Toscana (90% e 80%) e molto più debole in realtà come la Lombardia e la Sardegna (40% e 28%).
Ben il 55% delle Uo dichiara l'inesistenza di strumenti di tracciabilità in grado di identificare le persone malate avviate a un percorso di cure palliative (ambulatoriale, domiciliare o hospice). E, ancora, soltanto il 26% delle Unità operative ha tradotto questo strumento in un database elettronico.

Il personale. Il 46% delle Unità operative dichiara che il personale dedicato alla continuità delle cure all'interno della Uo è sia medico che infermieristico, mentre per il 28% delle strutture non è previsto alcun personale dedicato. Ancora, per il 44% delle Uo il personale dedicato alla continuità delle cure non garantisce attraverso una struttura organizzativa dedicata un servizio di dimissione protetta, mentre viene garantita attraverso un servizio strutturato a livello aziendale nel 36% dei casi e strutturato a livello di Uo nel 20%.

I rapporti con pazienti e professionisti. Se il 90% delle Uo dichiara che il malato insieme ai familiari viene «abitualmente informato e coinvolto nella decisione di attivare un programma di cure palliative da un team di professionisti, il 53% di Uo non utilizza procedure che favoriscono l'informazione al malato sulla prognosi». Per il 44% delle Uo la presa in carico avviene con una procedura concordata, che però è inesistente nel 26% dei casi. «Una quota non trascurabile», si legge nel Report. Che rincara la dose: «È da sottolineare che per più di un terzo delle Uo che prevedono una procedura concordata ciò non trova in realtà un riscontro nell'esistenza di un documento della Uo o dell'azienda ospedaliera».

INTERVISTA AD ADRIANA TURRIZIANI, PRESIDENTE DELLA SICP


Dalla ricerca Agenas emerge per le cure palliative domiciliari un problema di accessibilità ai servizi per alcune aree del Paese. Ma secondo Adriana Turriziani, presidente della Società italiana cure palliative e membro del comitato scientifico del progetto Agenas, la chiave più interessante dello studio è il tentativo di ottenere una mappatura puntuale delle Ucp domiciliari allo scopo di individuare percorsi di di sviluppo e miglioramento. "Le Ucp domiciliari – spiega il presidente della Sicp - rispondono perfettamente agli articoli 1 e 2 della Legge 38/2010, il che significa rispettare l'autonomia e la dignità del paziente, che deve poter scegliere dove terminare la sua esistenza, ma anche armonizzare e valorizzare servizi e competenze. Per la Sicp tutta la cornice organizzativa e istituzionale rappresenta l'asse portante per realizzare cure palliative moderne e di qualità.
Dal report risulta anche che le Ucp docmiciliari pubbliche fanno molta più fatica a conformarsi agli standard qualitativi individuati dall'intesa Stato-Regioni del luglio 2012. Come si spiega?
In Italia la tradizione delle cure palliative domiciliari è partita proprio dal no-profit, quindi non sorprende che le strutture private rispondano meglio ai criteri di qualità individuati dal board della ricerca. Ora però gli atti normativi devono far sì che anche il pubblico elevi i propri standard, affinché i criteri di fondo dell'intesa diventino obiettivi assistenziali comuni, per tutte le strutture, per tutte le patologie e le età del paziente e in tutte le aree del paese.
Un altro punto debole è la continuità assistenziale..
Il processo culturale è ormai avviato, in alcune aree ci sono livelli di eccellenza, in altre si comincia a intravedere la possibilità di far dialogare i professionisti e soprattutto le discipline. Siamo molto orgogliosi che sia stata introdotta la definizione della disciplina in cure palliative. L'altra chiave da ricercare è il modello di lavoro integrato. Una sinergia tra poli oncologici e i servizi di cure palliative domiciliari o gli hospice significa sviluppare un impegno delle professioni maggiore in questo senso, perché sicuramente abbiamo obiettivi realistici da raggiungere, abbiamo il controllo della malattia e dei sintomi ma va anche migliorata la comunicazione al paziente.
C'è ancora lavoro da fare anche sul fronte dell'estensione delle cure palliative ai pazienti non oncologici. Secondo lei è un problema ancora una volta culturale o di risorse?
Io partirei anche dalla mancanza di conoscenza di quello che un servizio di cure palliative domiciliari può offrire allo specialista di una certa insufficienza d'organo. Siamo certi che questi medici sappiano quanto può fare una ucp domiciliare in modo da poter affidare con serenità all'equipe un paziente complesso? Sicuramente serve una maggiore biunivocità e una migliore comunicazione. Su questo fronte un grande aiuto arriva dalla Simmg, che sta investendo tanto a livello culturale per stimolare i Mmg ad avere interesse verso il paziente non oncologico. Forse possiamo fare un lavoro sinergico. E sono molto fiduciosa. Il Mmg in questo caso sarebbe un facilitatore fondamnetale di questa conoscenza.
A livello normativo, che cosa manca?
Abbiamo la necessità di stimolare percorsi formativi. Nella legge 38, all'articolo 8 comma 1 si prevede con uno o più decreti l'individuazione dei criteri generali per la disciplina degli ordinamenti didattici di specifici percorsi formativi in materia di cure palliative e di terapia del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative. Le cp insomma devono entrare nei piani di studio universitari. Questo non è stato ancora fatto, eppure garantirebbe la conoscenza dell'approccio palliativo a tutti gli operatori sanitari. Il che significa la diffusione di una sensibilità diversa.