Sentenze

Cassazione, «Il radiologo morì per troppo lavoro, Asl colpevole». I sindacati: «Pietra miliare per i diritti dei lavoratori»

di Lucilla Vazza

Di troppo lavoro si può morire. Lo ha scritto la Cassazione in una sentenza destinata a passare alla storia per le ricadute e lo hanno sottolineato i sindacati medici che hanno commentato la decisione dei giudici definendola «pietra miliare per i diritti dei lavoratori».

La sentenza della sezione Lavoro, 8 giugno 2017, n. 14313 , è la conclusione di una vertenza sorta nel 1998, dopo la morte di un tecnico radiologo poco più che trentenne, dipendente dell’ospedale di Nicosia, Asp di Enna. La famiglia chiese il pagamento dell'equo indennizzo perché convinti che il decesso fosse imputabile all'enorme carico di lavoro cui il radiologo era stato sottoposto nei sette anni del rapporto lavorativo.

In primo grado il tribunale di Nicosia aveva accolto le istanze dei familiari e condannato l'Azienda provinciale al pagamento dell'equo indennizzo e al risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale per la perdita della figura familiare, ma la sentenza era stata ribaltata dalla Corte d'Appello di Caltanissetta (sentenza del 26 gennaio 2011), che aveva introdotto una previsione poi definita inaccettabile dalla Cassazione: se il lavoratore non protesta non può chiedere il risarcimento dei danni subiti.

La ricostruzione dei fatti: 18.564 esami annui per 4 lavoratori
L'istruttoria in primo grado aveva già evidenziato che il lavoratore, dalla sua assunzione (3 aprile 1991) al decesso (19 settembre 1998), a causa della carenza di organico di dipendenti con la qualifica di tecnico di radiologia «era stato chiamato a svolgere, insieme ai suoi colleghi, una notevole mole di lavoro presso i servizi di radiologia, ecografia e tomografia computerizzata, peraltro trovandosi a percorrere, anche nei periodi invernali, il tragitto esterno che collega tali servizi; era inoltre emerso che, per gli stessi motivi di carenza di organico, l'Azienda convenuta aveva sottoposto il dipendente, negli anni di svolgimento del suo rapporto di lavoro, a turni di reperibilità in eccesso rispetto a quelli previsti di regola dal contratto collettivo».

La corte d’appello aveva «trascurato» scrivono i supremi giudici «suddetti elementi di fatto, compiutamente emersi nell'istruttoria testimoniale e debitamente valorizzati dal Giudice di primo grado», e «contraddittoriamente, pur dichiarando di non voler disconoscere tali risultanze probatorie, ne aveva completamente ignorato la valenza giuridica nel ritenere insussistente qualsiasi profilo di colpa ascrivibile alla P.A» di qui la decisione di ribaltare la pronuncia, condannando la Asp di Enna.

Superlavoro «ordinario e non eccezionale»
La ricostruzione della Cassazione parla di «mancata considerazione dell'impressionante numero di esami effettuati dal servizio in tutti i reparti, a carico dei soli quattro tecnici di radiologia». I sanitari hanno lavorato a «una mole di 148.513 esami, corrispondente ad una media di 18.564 esami annui, cui andavano aggiunti gli esami del servizio di tomografia computerizzata, pari ad una media di circa 662 esami annui».

Per i giudici è importante considerare il carattere «ordinario (e non eccezionale) del superamento dei limiti fissati contrattualmente per i turni di pronta disponibilità, anche in violazione dell'art. 36 Cost» e dunque «il sistematico ricorso alle prestazioni in eccesso per far fronte alle carenze di organico, com'è avvenuto nel caso di specie, si poneva al di fuori della previsione del C.C.N.L. e della normativa di settore ed anzi ne costituiva una violazione. La giustificazione del comportamento datoriale espresso dalla Corte territoriale costituiva un'applicazione distorta della disciplina giuridica dell'eccezione ai limiti dei turni di pronta disponibilità».

Se il lavoratore non si lamenta non può chiedere i danni :un principio inaccettabile

La sentenza d’appello aveva escluso che il datore di lavoro fosse colpevole di non avere adottato tutte le misure necessarie la tutela dell'integrità psico-fisica del dipendente, «poiché il G.R. non si era lamentato e/o rifiutato di svolgere i turni di disponibilità, né aveva protestato per il carico di lavoro impostogli o chiesto al datore di lavoro di essere assegnato a mansioni diverse. Così facendo, la sentenza aveva introdotto il principio, inaccettabile nel nostro ordinamento, per cui solo chi si lamenta delle condizioni di lavoro o sollecita l'adozione di misure a tutela della propria incolumità può poi reclamare i danni alla propria persona che sono derivati dalla mancata predisposizioni di tali cautele. Né parte datoriale aveva allegato alcun concorso di colpa del lavoratore ai sensi dell'art. 1227 c.c., norma che (in ipotesi) potrebbe limitare i confini applicativi dell'art. 2087 c.c., ma che in ogni caso non potrebbe identificarsi in un onere del lavoratore di dolersi o sollecitare iniziative della parte datoriale, sulla quale esclusivamente grava l'obbligo di tutela presidiato dalla suddetta norma».

In definitiva, si tratta di una sentenza molto chiara e che traccia precisi confini tra ciò che si può accettare e ciò che è semplicemente fuori dalle regole del diritto del lavoro.

Le tutele per l’integrità fisica del lavoratore
La Corte ribadisce quanto più volte affermato (ex plurimis, v Cass. 3. 8 2012 n. 13956, nonché Cass. 8.10.2012 n. 17092 e n. 18626 del 2013), secondo cui «la responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., la quale impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori (v. fra le altre Cass. n. 6377 e n. 16645 del 2003)».



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