Aziende e regioni

Primo: misurare l’assistenza erogata sul territorio

di Walter Ricciardi (commissario straordinario Iss)

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24 Esclusivo per Sanità24

Anche per le cure territoriali è giunto il tempo delle grandi trasformazioni, perché i piccoli cambiamenti non bastano più. È un segnale positivo che il Congresso nazionale di Card, società scientifica dei professionisti che operano per le attività sociosanitarie territoriali, abbia coinvolto anche i pubblici decisori e i Medici di medicina generale. Il mio auspicio è che tutti insieme acquisiamo una reale consapevolezza dell'urgenza del cambiamento.
Quattro sono gli elementi che rendono la riorganizzazione della cure primarie una priorità improrogabile: la transizione epidemiologica, legata all'invecchiamento della popolazione e all'aumento delle malattie croniche e delle comorbidità; poi la sorprendente innovazione farmacologica e tecnologica, che ha riguardato anche la sanità in modo eclatante; e ancora, l'enorme differenziazione professionale, una grande promessa per la salute pubblica, ma che insieme alle altre due spinte appena citate, e naturalmente alla crisi finanziaria, sta rendendo il Sistema sanitario nazionale difficilmente sostenibile.

I tre perni del cambiamento - a parer mio ormai abbastanza condivisi - sono lo stimolo alla prevenzione e agli interventi precoci, l'empowerment del cittadino-paziente e la riorganizzazione dei servizi. Azioni sulle quali non solo il distretto, ma tutta la sanità territoriale si gioca una partita fondamentale, se non altro perché dalla sua efficienza in queste tre aree dipenderà anche la sua capacità di finanziarsi. Di qui un suggerimento sul più urgente degli interventi da attuare: rendere misurabile l'assistenza erogata sul territorio. I servizi ospedalieri, infatti, sono rigorosamente misurati attraverso cartelle cliniche, Drg e rigidi sistemi di finanziamento. Tutto ciò non avviene per l'assistenza territoriale, poco misurata e quindi più vulnerabile.
Tornando all'obiettivo primario del cambiamento, i modelli stranieri sono forse incapaci di suggerirci una strada maestra. Si stanno trasformando più rapidamente i Paesi caratterizzati da un modello assicurativo sociale, come Olanda e Germania, più agili perché in queste esperienze lo Stato si è assunto le responsabilità di semplice regolatore, dismettendo gli oneri di erogatore dei servizi.

Più lenti, nella trasformazione, i Paesi che hanno mantenuto un Ssn e stanno tentando di traghettarlo al di là della crisi. Ma anche fra queste esperienze esiste una differenza macroscopica: le nazioni del Nord Europa, soprattutto quelle scandinave, hanno fatto passi da gigante e hanno pressoché concluso il proprio percorso di riforma, mentre l'area mediterranea, come Portogallo, Grecia e Spagna, si sta in realtà ritirando dai servizi sanitari, in qualche modo tradendo il modello beveridgiano.
C'è poi il caso a sé stante del Regno Unito, con un governo conservatore, legittimato per i prossimi 5 anni, che con ogni probabilità taglierà le risorse destinate al servizio pubblico e cercherà di privatizzarlo il più possibile. All'Italia, che non vuole rinunciare a un modello tendenzialmente universalistico, il compito di elaborare un assetto originale, efficace e sostenibile.

Uno schema ideale prefigurato da alcune esperienze virtuose - come il Cronic care model lanciato in Emilia Romagna e in Toscana, o l'esperimento della Lombardia con i Creg - ma sul quale è importante accelerare e tendere all'omogeneità, individuando modelli attuabili in tutte le Regioni. Convincimento comune è che il nuovo assetto della sanità territoriale dovrà essere in grado di misurarsi anzitutto con quattro grandi aree di intervento: malattie oncologiche, malattie cardiovascolari, malattie respiratorie e malattie neurologiche. In sostanza, le patologie che pongono al sistema sanitario il 90% dei problemi più spinosi.
Infine, il capitolo delle professioni, naturalmente implicate nel processo di trasformazione. A prescindere da miopi corporativismi, il vero è che abbiamo bisogno di tutte le professionalità, e non solo delle professioni sanitarie, ma anche di quelle legate all'assistenza sociale. Su questo fronte, per paradosso, potrebbero soccorrere i “meriti” della crisi: le questioni che dobbiamo affrontare, infatti, sono di natura e dimensioni tali da non poter essere risolte, banalmente, con i soldi, che tra l'altro sarebbero comunque insufficienti.
Si imporranno quindi nuove strategie e una nuova mentalità - che sono la linfa del vero cambiamento - e il distretto sociosanitario rappresenterà uno snodo organizzativo e un collettore di energie di straordinaria importanza. Il banco di prova, sia per i professionisti che lavorano nel distretto sia per i Medici di medicina generale, sarà la capacità di stringere un patto, e di individuare insieme modelli di collaborazione, buone pratiche comuni e flussi di lavoro condivisi. E ciò, naturalmente, mantenendo aperto il dialogo con l'ospedale e con le specialistiche.


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