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Sanità post Covid: le piste di lavoro per il necessario cambio di strategia

di Carla Collicelli

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24 Esclusivo per Sanità24

L’esplosione della epidemia virale a febbraio 2020 ha stravolto i tradizionali parametri di riferimento della sanità italiana, ponendo nuove sfide al sistema e producendo una cesura nelle linee di tendenza precedenti. Nel periodo pre-Covid non si avevano dubbi sull’ottimo livello raggiunto dalla sanità italiana rispetto a quelle di altri paesi avanzati, per i dati sulla speranza di vita, sul controllo delle patologie più importanti, specie acute, e nell’universalismo del sistema di offerta. Una sanità che si configura come una delle aree di maggiore efficienza nell’ambito della Pubblica Amministrazione italiana, in termini di risultati raggiunti, di qualità percepita e di efficienza gestionale. I dati fino al 2019 segnalano anche un trend leggermente migliorativo per il tasso di mortalità, la speranza di vita, la copertura vaccinale generale e il dimensionamento del personale e dei posti letto nei presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari. In controtendenza, sempre fino al 2019, la copertura vaccinale over 65, che si è ridotta di circa 8 punti percentuali tra 2010 e 2019, ed i posti letto per 10.000 abitanti, che diminuiscono di oltre il 14% nel periodo considerato.
Certo non mancavano criticità di lunga data e tipiche dei sistemi sanitari dei paesi avanzati, relative ai costi del sistema di offerta a fronte della crescita della domanda e degli anziani fragili e disabili; all’empowerment e all’informazione e comunicazione tra sistema di offerta e utenti; all’equità redistributiva, in particolare per quanto riguarda i tempi e le procedure di accesso ai servizi e la distribuzione dell’offerta sul territorio; alle carenze, ed in alcuni casi il peggioramento di alcuni stili di vita importanti per la salute; alla insufficiente integrazione tra servizi sanitari e servizi sociali. E non vi è dubbio che molte delle criticità sono riconducibili al de-finanziamento che la sanità pubblica italiana ha subito nel corso degli ultimi anni, e che ha riguardato in particolare il personale e gli investimenti per l’ammodernamento delle strutture e delle tecnologie.
Il leggero miglioramento che si è avuto in termini di aumento della spesa pubblica tra 2010 e 2019 non ha modificato sostanzialmente lo squilibrio, e ciò anche perché alcuni stanziamenti previsti non sono stati assegnati a seguito della introduzione di diverse manovre finanziarie, per un totale stimato per gli ultimi 10 anni di circa 37 miliardi di euro totali sottratti alle necessità del SSN secondo le previsioni. Analoga questione si pone per quanto riguarda il personale, la cui voce di spesa, dopo l’aumento registrato tra 2004 e 2008 (+19,5%), si è mantenuta sostanzialmente costante tra 2008 e 2017, per aumentare poi, ma solo dell’1,4%, tra 2017 e 2018. Secondo un recente documento della Corte dei Conti, al 31 dicembre 2018 il personale a tempo indeterminato nel SSN era inferiore a quello del 2012 di circa 25 mila unità (circa 41 mila rispetto al 2008) con una riduzione del 4% tra 2012 e 2017 e del 6,5% tra 2004 e 2017.
In questo contesto la pandemia, esplosa ufficialmente alla fine del mese di febbraio 2020, ha prodotto un impatto dirompente sul sistema. Secondo gli ultimi dati ufficiali di giugno 2021, si contano in Italia 4 milioni 25 mila casi accertati e 127.000 decessi e nel mondo 178 milioni di casi e 3 milioni e 860 mila decessi. La seconda ondata di epidemia, che ha colpito il paese a partire dal mese di ottobre 2020 e si sta solo ora finalmente attenuando, si è rivelata ben più pesante in termini di impatto della prima. Solo nel periodo 26 ottobre – 8 novembre si è trattato di 390.584 nuovi casi, di cui 11.685 di operatori sanitari. Dai consuntivi che l’Istat sta sfornando con grande tempestività risulta che il 2020 è stato l’anno con il maggior numero di morti dalla guerra in poi, con un aumento del 20,4% rispetto all’anno precedente, inferiore rispetto a Belgio Spagna e Polonia e superiore rispetto a Francia Germania Olanda e Portogallo. Grazie ad uno sforzo molto efficace compiuto dal mondo farmaceutico si è potuto dar via alla campagna vaccinale con diversi vaccini. Al 21 giugno 2021 il totale delle persone vaccinate in Italia è di 15.769.898, pari al 29,07% della popolazione over 12, e ciò è stato possibile grazie ad una organizzazione formidabile ed all’allestimento di 2.706 punti vaccinali in tutto il paese.
Ma cosa è successo alla macchina pubblica della sanità? L’emergenza Covid ha prodotto una pressione sulle strutture sanitarie, sui carichi di lavoro del personale, sulla tutela delle categorie di utenza più fragili, sulla continuità assistenziale per i pazienti cronici e disabili, sui programmi di screening, nonché in termini di benessere psicologico e di prevenzione del disagio psico-sociale, molto pesante, dirompente ed inaspettata. La pandemia ha in sostanza acutizzato le criticità precedenti, e sollevato perplessità, dubbi ed una vivace discussione sulla necessità di rivedere gli assetti dei servizi di settore.
Molti i nodi venuti al pettine. Prima di tutto i reparti di terapia intensiva. Secondo le informazioni del Ministero della Salute se ne contavano a febbraio 2020 in Italia 5.179, pari a 8,58 ogni 100 mila abitanti, meno del 2012, quando erano 12,5 ogni 100 mila abitanti, a fronte del 15,9 del Belgio, dei 21,8 dell’Austria e dei 29,2 della Germania. Nel corso della pandemia si è proceduto ad una loro implementazione attraverso i Piani regionali di riorganizzazione della rete ospedaliera, e la disponibilità è cresciuta in media del 50%. Analogo incremento si è verificato per quanto riguarda i posti letto di pneumologia e malattie infettive, aumentati, sempre secondo la comunicazione ufficiale del Commissario del 9 ottobre, di 7.670 unità (da 6.525 a 14.195).
Accanto a ciò si è rivelata la drammaticità della insufficienza, nella prima ondata, dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) che, nonostante lo sforzo fatto nel frattempo, ancora a ottobre 2020 non bastavano e dovevano essere importati con le difficoltà del caso. Analoga situazione si è riscontrata pe le strumentazioni necessarie nei reparti di terapia intensiva, e per il monitoraggio della pandemia.
Ma l’impatto più pesante si è registrato in termini di continuità assistenziale per le patologie non-covid, anche quelle croniche e gravi, come segnalato sin dall’inizio della pandemia soprattutto dalle associazioni dei pazienti e dalle società scientifiche. Tra i primi a lanciare un grido di allarme pazienti e medici del settore dell’oncologia, che a fine 2020 segnalavano una riduzione del 52% delle nuove diagnosi, del 57% delle visite oncologiche e del 64% degli interventi chirurgici.
Ciò rimanda al cambiamento del quadro epidemiologico. Ad epidemia ancora in corso è evidente che la pandemia ha aggiunto ai rischi di quello che nei paesi sviluppati viene chiamato il doppio carico di malattia (double burden of desaese) – dato dalle patologie croniche degenerative che si sommano alle patologie acute –, un ulteriore carico – triplo o quadruplo (per riprendere quella formula) – dato dalla recrudescenza delle patologie da virus, di cui Covid-19 è l’esempio vivo e attuale, e dalla pressione che deriva dalla sovrapposizione tra patologie infettive, vecchie e nuove, ma soprattutto nuove, e patologie croniche.
Rispetto alla organizzazione dei servizi, l’aspetto più problematico si è rivelato essere quello della cosiddetta medicina del territorio, o meglio della sanità di comunità. Come hanno scritto i medici dell’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo il 21 marzo 2020, la pandemia è una crisi umanitaria, che tocca tutta la popolazione e richiede un approccio comunitario di popolazione e di territorio, per cui la strategia sanitaria centrata sul paziente deve essere affiancata da un altrettanto decisa strategia centrata sulla comunità e sul territorio, che significa prevenzione estesa ad ambiti non sanitari, collaborazione tra settore sociale e settore sanitario, medicina di iniziativa, monitoraggio a tappeto delle condizioni di salute sul territorio e domiciliarità.
Alle lacune della medicina territoriale si è cercato di far fronte con la introduzione delle cosiddette Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA, come da Decreto Legge 14/20 del 9 marzo 2020), finalizzate alla gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. Ma secondo la Corte dei Conti le USCA attivate a metà novembre 2020 a livello nazionale erano meno del 50% di quelle previste.
La pandemia ha rivelato l’impreparazione del sistema di fronte alle emergenze. E la non attuazione degli obiettivi peraltro ampiamente previsti in moti Piani e documenti strategici. Ad esempio il nuovo Patto per la Salute 2019-2021 (approvato in Conferenza Stato Regioni il 18 dicembre 2019) che prevede, oltre agli aspetti relativi al finanziamento, al personale ed alla salvaguardia della garanzia dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), un ampio capitolo sullo sviluppo dei servizi territoriali: dalla diffusione delle tecnologie per la cura ed il monitoraggio, alla valorizzazione del ruolo dei medici di medicina generale, allo sviluppo della presa in carico della cronicità e della assistenza domiciliare.
Il Piano della Prevenzione 2020-2025 del dicembre 2019, poi, assume come principi base quelli dell’ottica One Health ( concetto coniato nel 2004 nella conferenza indetta dalla Wild Conservation Society), applicato principalmente alla salute animale, alla sicurezza degli alimenti, alle epidemie zoonotiche e all’antibiotico-resistenza, da prendere in più attenta considerazione per quanto riguarda: l’inquinamento delle risorse naturali e la distruzione della biodiversità; la progettazione urbana e la pianificazione territoriale, produttiva e dei trasporti; la messa a frutto delle potenzialità tecnologiche e informatiche. Il Piano prevede inoltre l’attuazione di una strategia di “salute in tutte le politiche”, di coinvolgimento della comunità e dei gruppi di interesse, dello sviluppo delle competenze e informazioni in materia di salute, dei sistemi di sorveglianza e del coordinamento tra Registri delle patologie. Relativamente alle “emergenze infettive” il Piano recita: si richiede “lo sviluppo di sistemi in grado di identificare tempestivamente possibili emergenze infettive, la capacità di valutare il rischio ad esse associato e la disponibilità di piani aggiornati di preparazione e risposta intersettoriali, sia generici che specifici per patologia infettiva”. I relativi obiettivi comprendono l’informatizzazione dei sistemi di sorveglianza e delle segnalazioni e la formazione degli operatori.
Il Piano Pandemico nazionale, infine, è il documento principale per quanto riguarda le epidemie del tipo di quella da Covid 19,. Il nostro risale al 2006, è stato stilato a seguito della influenza aviaria e sulla base delle indicazioni dell’OMS del 2005 e contiene indicazioni molto importanti sul coordinamento inter-istituzionale e settoriale, sulle 6 fasi indicate dall’OMS, e cioè 2 fasi inter-pandemiche, 3 di allerta pandemica, e 1 di periodo pandemico, e sulle azioni-chiave da mettere in campo per ciascuna delle fasi, sotto il coordinamento del Centro Nazionale per la Prevenzione ed il Controllo delle Malattie (CCM) e attraverso la costituzione di una struttura operativa centrale con ramificazioni regionali. Come da più parti rilevato, il Piano Pandemico avrebbe dovuto essere aggiornato dopo il 2006, ed in particolare a seguito delle successive direttive dell’OMS. Ma soprattutto non è mai stato preso in seria considerazione né si è dato seguito alle indicazioni già previste nel 2006 e che avrebbero alleggerito la pressione della pandemia.
La pandemia, in sostanza, ha messo il sistema della salute pubblica di fronte ad alcune necessità impellenti, tra cui 3 in particolare sono le questioni di rilevanza strategica e da affrontare. Innanzitutto le interconnessioni tra salute e benessere ambientale. L’impatto devastante di una epidemia virale in un paese sviluppato come il nostro ha reso evidente la correttezza dei richiami sul tema dell’ecosistema e del benessere globale, e ha posto il mondo di fronte alla necessità di prendere seriamente in considerazione quanto dichiarato ad esempio nell’ambito dell’High-level Meeting on Universal Health Coverage (UHC) del 23 settembre 2019, e ripreso dai documenti italiani che abbiamo citato.
Per quanto riguarda la globalità, la pandemia ha posto in primo piano il tema delle strategie per il benessere e la salute a livello mondiale. In questo senso la salute deve diventare un riferimento a livello mondiale secondo i principi già da tempo enunciati, a partire dalla Dichiarazione di Alma Ata, e deve influenzare anche gli assetti delle politiche educative e di formazione continua per l’intera popolazione, attraverso la collaborazione con le strutture scolastiche e universitarie e con il mondo della cultura e dell’informazione.
Infine la pandemia ha messo in evidenza l’importanza della dimensione comunitaria delle politiche pubbliche, in questo come in altri settori, e la necessità di superare l’approccio schematico che vede contrapposta da domanda di servizi e l’offerta, per abbracciare una strategia di collaborazione tra istituzioni, società e corpi intermedi (associazioni, comunità, ecc.).

* CNR, CID Ethics, Sapienza Combiomed, ASviS Relazioni istituzionali


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