Aziende e regioni

Ssn post Covid, quali lezioni trarre col senno di poi?

di Livio Garattini *, Alessandro Nobili *

S
24 Esclusivo per Sanità24

L'Italia è stata la prima nazione europea drammaticamente colpita dalla pandemia Covid-19, registrando il numero ufficiale di vittime più elevato nel mondo fino a Pasqua del 2020. Ovviamente, questo evento catastrofico ha messo sotto pressione Il Servizio sanitario nazionale (Ssn), un sistema pubblico formalmente caratterizzato da copertura universale. In questo commento vengono sintetizzate le principali caratteristiche del Ssn a livello istituzionale e quindi analizzati i tre servizi sanitari messi sotto pressione dalla pandemia: 1) la medicina generale (MG); 2) i pronto soccorso (PS) ospedalieri; 3) le unità di terapia intensiva (UTI).
Introdotto nel 1978 sulla scia del NHS inglese, il Ssn è un servizio pubblico finanziato principalmente dalla tassazione generale, che deve garantire la copertura universale e l’erogazione di tutti i servizi sanitari necessari al momento del bisogno. Peraltro, diversamente dal NHS, il Ssn è molto decentralizzato a livello regionale e la sanità è la voce di spesa di gran lunga preponderante in tutti i bilanci regionali; è oramai da tempo diventato un luogo comune rimarcare che l'Italia ha in realtà ventuno Ssr. In effetti, i compiti centrali e regionali si sono sovrapposti e confusi nel corso degli ultimi decenni in seguito a numerosi e frammentari provvedimenti legislativi. Infine, forse non del tutto superfluo ricordare che le nostre venti regioni (in pratica 19+2 province autonome) governate da politici eletti variano moltissimo sia in termini di dimensione territoriale che di abitanti.
Diversamente dagli altri Paesi europei occidentali, esistono due tipologie di medici MG in Italia, uno per gli adulti e uno per i bambini, sommati insieme all’incirca 52.000 abbastanza omogeneamente distribuiti in tutte le aree del Paese. Come quasi dappertutto in Europa, i nostri Mmg sono formalmente liberi professionisti remunerati a quota capitaria in base a contratti nazionali, con incentivi finanziari addizionali che variano da regione a regione. Peraltro, a differenza dei loro colleghi inglesi, molti Mmg italiani lavorano tuttora singolarmente, nonostante le numerose esperienze regionali succedutesi a partire dalla fine degli anni novanta per incentivare le pratiche di gruppo. Il fatto che ogni cittadino sia tuttora registrato con un singolo Mmg, diversamente dai colleghi inglesi, costituisce un ostacolo quasi insormontabile al lavoro di gruppo e l'accesso settimanale agli ambulatori dei MMG è tuttora assai limitato, rendendo un mero slogan politico quello della ‘copertura 24 ore’ lanciato qualche anno fa.
Analogamente a quanto accade nel NHS, i PS ospedalieri sono i ‘pilastri’ delle emergenze nel SSN e godono della massima fiducia nella popolazione italiana. Tuttavia, il sovraffollamento è diventato un problema crescente dei PS nel nuovo millennio, anche a causa della situazione prima descritta dei Mmg, i quali faticano a svolgere il loro ruolo di ‘filtro’ delle urgenze per problemi che potrebbero essere trattati sul territorio. In base a una recente indagine nazionale prima della pandemia, la maggioranza degli accessi totali ai PS pubblici era costituita da codici bianchi e verdi. Un altro problema cruciale dei PS è la loro tuttora diffusa presenza in ospedali pubblici di dimensioni insufficienti. Ad esempio, i due PS dove si sono verificati il primo e il secondo focolaio in Lombardia sono entrambi situati in piccoli ospedali. Inutile nasconderci che molti processi di riconversione della rete ospedaliera sono spesso falliti in passato, sfociando in riorganizzazioni assai discutibili influenzate dalla politica locale. D’altro canto, vista la debolezza della MG, è opinione diffusa nelle popolazioni extra-metropolitane che una distanza crescente dai servizi ospedalieri costituisca un rischio per la propria salute in caso di urgenze, reali o percepite che siano. Ciò ha alimentato un po’ ovunque nel paese una diffusa resistenza politica alla chiusura dei PS nei piccoli ospedali locali, nonostante le insufficienti competenze cliniche e attrezzature tecnologiche. Infine, va ricordato che, analogamente a quanto accade in molte altre nazioni europee, ben pochi ospedali privati hanno un PS in Italia. Questo risultato non deve affatto sorprendere, visto che i PS sono servizi molto costosi e scarsamente remunerativi per definizione, essendo caratterizzati dalla presenza a tempo pieno di molti professionisti sanitari durante tutta la settimana a prescindere dalla domanda di accesso quotidiana.
Le UTI sono composte da gruppi di lavoro molto specializzati e dotate di apparecchiature tecnologicamente avanzate, dovendo monitorare e supportare le funzioni vitali di pazienti che versano in condizioni estremamente critiche; una vera e propria sfida per i loro operatori, come spesso sottolineato dai media durante la pandemia. La densità dei letti di UTI era relativamente omogenea sul territorio italiano in epoca pre-covid, con la stragrande maggioranza dei letti ubicata negli ospedali pubblici con tassi di occupazione relativamente bassi. La ragione della prevalenza pubblica schiacciante va ricondotta anche nel caso delle UTI ai costi fissi elevati sia di personale che di attrezzature e quindi all’assai ridotta remuneratività. Infine, va sottolineato che i confronti internazionali sulla disponibilità di letti nelle UTI risultano piuttosto incerti, trattandosi di un servizio strettamente correlato alla restante organizzazione del presidio ospedaliero. In base a un’indagine europea condotta dieci anni fa, la variabilità dei letti fra nazioni era decisamente elevata, con i valori più bassi registrati in Svezia e Regno Unito e quelli più alti in Austria e Germania. E, non a caso, entrambi i primi due paesi investono molto sui servizi territoriali e presentano una bassa densità di posti letto ospedalieri totali, mentre gli altri due una densità assai elevata di questi ultimi.
Alla luce di quanto sopra esposto, riteniamo sia giunta l’ora di affrontare i problemi strutturali del Ssn tragicamente emersi nel corso della pandemia. Il primo è istituzionale e necessita di una coraggiosa riforma politica, dal momento che l'Italia non può più permettersi di avere così tante regioni, con popolazioni che variano da quelle di una provincia locale di modeste dimensioni (Val d’Aosta) a quelle di una nazione europea di medie dimensioni (Lombardia). Oltre che irrazionale, tale situazione rende del tutto irrealistica l’erogazione di analoghi livelli essenziali di assistenza. Inoltre, l'autonomia regionale rende il Ssn troppo esposto all'influenza della politica locale, minando alla radice la capacità di programmazione e controllo a livello centrale. Quindi, il primo passo per riequilibrare la struttura del Ssn sul territorio è quello di ridurre drasticamente il numero di regioni. Ad esempio, assumendo una soglia minima di cinque milioni di abitanti, il loro numero potrebbe essere facilmente più che dimezzato aggregandole in due macro-regioni settentrionali, due centrali e due meridionali, a cui sommare la Lombardia (di gran lunga la più popolosa) e le due grandi isole (isolate per definizione). Questa riforma non può essere catalogata come impossibile, a maggior ragione dopo un evento così catastrofico come Covid-19. Si pensi che, a dispetto di una forte resistenza politica a livello locale, la Danimarca l’ha portata a termine una quindicina di anni fa (da tredici a cinque) in tempi normali e, come conseguenza, sono stati definitivamente chiusi molti ospedali per acuti di dimensione insufficiente.
Il secondo problema è organizzativo e riguarda la situazione oramai deficitaria della MG a ‘monte’, con il conseguente inarrestabile accesso ai PS ‘a valle’ del Ssn. La riorganizzazione dei servizi territoriali appare oramai imprescindibile e una manovra razionale sarebbe quella di raggruppare i siti esistenti nei singoli distretti sanitari in ‘centri della salute’ aperti al pubblico almeno 12 ore nei giorni feriali. Queste strutture dovrebbero assumere tutti gli operatori sanitari che lavorano in assistenza primaria, Mmg inclusi, i quali dovrebbero contribuire a garantire i turni di lavoro quotidiani. Siffatte strutture multidisciplinari permetterebbero di estendere in modo sostanziale l'accesso giornaliero dei cittadini ai servizi territoriali e faciliterebbero il filtraggio degli accessi inappropriati ai PS. Non a caso, i livelli di affollamento più contenuti dei PS vengono registrati nel NHS e nelle nazioni scandinave.
La terza e ultima proposta riguarda l’assistenza emergenziale e dovrebbe essere la più semplice da applicare una volta affrontate le due precedenti. Siccome la dotazione di posti letto UTI è abbastanza omogenea in tutta Italia e il loro tasso medio di occupazione molto contenuto in tempi normali, un aumento strutturale di posti letto pubblici potrebbe generare notevoli inefficienze nel medio-lungo periodo. Di converso, il repentino afflusso di pazienti causato da una pandemia non può che porre rapidamente sotto pressione qualsiasi rete emergenziale di assistenza, per quanto iperdotata. La strategia migliore per affrontare queste circostanze appare la predisposizione anticipata di un piano nazionale di emergenza, in grado di garantire un pronto intervento centrale e un rapido coordinamento regionale, coinvolgendo qualora necessario la rete nazionale di protezione civile e l'esercito per allestire nuove UTI in tempi stretti. Infine, appare abbastanza ovvia la raccomandazione di assegnare il coordinamento di un’emergenza pandemica a un’unità speciale di crisi predisposta all’interno di un'agenzia sanitaria nazionale, come non è accaduto nel caso della pandemia Covid-19.

* Istituto Mario Negri Irccs


© RIPRODUZIONE RISERVATA