Aziende e regioni

La riorganizzazione delle reti territoriali ispirate a un approccio di genere: sfide e prospettive per il Dm 71

di Angelo Rosa *

S
24 Esclusivo per Sanità24

Il Sistema sanitario nazionale sta affrontando due nuove sfide: l’incremento della popolazione anziana e l’aumento delle patologie croniche. Oggi in Italia ci sono 5 anziani per ogni bambino, un numero più che quintuplicato rispetto al 1951 e le persone con un’età compresa fra 0 e 14 anni sono il 13%, mentre le persone con un’età superiore ai 65 anni sono il 23,2%. Le patologie croniche raggiungono numeri importanti con l’avanzare dell’età. Dopo i 65 anni e prima dei 75, più della metà delle persone convive con una o più patologie, mentre dopo gli 85 anni i tre quarti. La cronicità più frequente riguarda l’apparato respiratorio e coinvolge mediamente il 6% degli adulti e all’avanzare degli anni aumenta considerevolmente anche la frequenza di cardiopatie e di diabete. Le differenze di genere nella cronicità risultano statisticamente significative dopo i 65 anni e sembrano favorire le donne. Difatti, analizzando i principali fattori di rischio nell’insorgenza delle patologie croniche, i dati mostrano differenze di genere rilevanti a sfavore degli uomini, nell’esposizione al fumo di sigaretta e nel consumo di alcool. Il Ssn, dunque, deve costruire un ecosistema intorno al paziente in modo da assicurare, per l’intero percorso di vita, un’efficace tutela sanitaria rispondente ai singoli bisogni dei singoli pazienti. In un momento in cui con il Pnrr ci apprestiamo a investire ingenti risorse, si presenta d’obbligo destinare parte di questi fondi all’ organizzazione di nuovi modelli organizzativi territoriali. Con il dm 70 del 2015 vi è stato un importante riordino della rete ospedaliera ma non è stata data altrettanta enfasi alla riorganizzazione della rete territoriale. Enfasi data, a seguito dell’emergenza pandemica, dal Dl 34/2020 che ha dettato misure urgenti in ambito sanitario in materia di riordino e potenziamento dell’assistenza territoriale. Due sono gli interventi strutturali importanti: l’introduzione di 9.600 infermieri di famiglia o di comunità al fine di garantire la massima presa in carico dei pazienti e la continuità assistenziale e l’attivazione di centrali operative che svolgono le funzioni di raccordo con tutti i servizi del territorio e con quelli di emergenza-urgenza. Tali interventi sono stati il punto di partenza per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il Pnrr prevede, infatti, la costruzione e implementazione, con i fondi europei, di una fitta rete territoriale capillare formata da 1288 case di comunità, 375 ospedali di comunità, incrementando a 7500 unità i posti letto e 602 centrali operative territoriali. L’obiettivo è quello di assicurare: continuità, accessibilità e integrazione dell’assistenza. Risulta sempre più evidente come la presa in carico della salute e dei bisogni sociosanitari della persona necessiti di un approccio più vicino alle persone in un ottica di genere.
Diventa pertanto imperativo l’abbattimento di barriere, anche culturali, superando per esempio concetti come i Pdta, utili per gestire patologie ma non persone, introducendo strumenti di presa in carico ed evolvendo piani assistenziali strettamente correlati al genere del paziente. Definire l’offerta terapeutica sulle differenze di genere consente di costruire un sistema sanitario più efficace, alla portata di tutti e in grado di raggiungere buoni risultati. L’Italia è stato il primo paese europeo che, nel giugno del 2019, ha varato un Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere. Quest’ultimo è volto a vincolare gli operatori ad attuare un protocollo genere-specifico, cioè a predisporre le terapie nel modo più adeguato alla persona in cura. In assenza della coscienza culturale e scientifica delle implicazioni che questa tematica implica, la politica della salute può risultare imprecisa e discriminatoria a livello metodologico. L’esigenza della riorganizzazione delle reti territoriali ispirate ad un approccio di genere è emersa in modo evidente dall’emergenza Covid-19, tanto da costituire un’importante fonte di stimolo per il suo sviluppo. Difatti, la pandemia ha ulteriormente evidenziato come ci siano differenze significative tra uomo e donna in termini di salute e malattia. Dai dati dei ricoveri in terapia intensiva, emerge che l’infezione da Sars-Cov-2 ha colpito soprattutto gli uomini in fase acuta, mentre le donne sono state più interessate dal Long Covid, ovvero la persistenza di sintomatologie che lascia l’infezione dopo la fase acuta. Uno studio condotto dall’Istituto superiore di sanità e relativo al periodo tra il 20 febbraio 2020 e il 13 gennaio 2021, consente di analizzare con maggiore dettaglio il gap tra uomini e donne. Nel range di tempo analizzato, i casi totali confermati erano 2.296.451, con una lieve maggioranza tra le donne. Osservando però i decessi, si rileva come già a partire dalla fascia di età 10-19 anni la percentuale di persone morte a causa del Covid-19 sia più elevata tra la popolazione maschile con una differenza che diventa più significativa tra i 50 e i 59 anni quando il rischio di decesso arriva ad essere triplicato. I dati italiani sono coerenti con quelli emersi a livello globale già durante la prima ondata della pandemia nel 2020, confermando un maggiore tasso di letalità di Covid-19 sulla popolazione maschile nonché evidenziando come le politiche per la salute pubblica continuino a non prestare sufficiente attenzione all'impatto delle differenze di genere davanti alle malattie. Tenere conto di tali differenze e saper agire di conseguenza apre nuove prospettive in termini di appropriatezza, efficacia ed equità degli interventi di prevenzione e cura. Quindi urgono adeguati livelli di formazione e di aggiornamento di tutto il personale medico e sanitario all’approccio di genere, inserendo a monte dell’offerta formativa dei corsi di Medicina l’approccio di genere nonché implementando esso nella pratica clinica, nella ricerca e nelle pubblicazioni scientifiche, così come nella formazione dei professionisti della salute e nell’informazione dei cittadini.L’emergenza pandemica deve essere vista e letta come un boost per superare i paradigmi obsoleti e adottare nuovi modelli sanitari di cura capaci di garantire equità e il soddisfacimento dei differenti bisogni di salute di ogni individuo. Il Recovery Plan già prevede di riorganizzare le reti territoriali in un’ ottica di genere. Sono stati stanziati 2 miliardi dei fondi nell’istituzione delle cosiddette “Case della Comunità”. Lo scopo è quello di potenziare e riorganizzare i servizi offerti sul territorio migliorandone la qualità e quindi realizzando una struttura fisica in cui opererà un team multidisciplinare costituito da: medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialistici, infermieri di comunità, altri professionisti della salute e assistenti sociali, che opererà secondo un approccio di genere. Inoltre, per limitare gli accessi non necessari ai pronto soccorso e alleggerire gli ospedali da prestazioni di bassa complessità, si prevede la realizzazione degli “ospedali di comunità”, strutture a un livello intermedio tra l’assistenza a domicilio e quella in ospedale previsti dal dm 70 del 2015 e disegnate dall’Intesa Stato-regioni del 26 febbraio 2020. Al momento, però, il Dm 71 che avrebbe dovuto definire il modello delle “Case della Comunità” non è stato ancora varato e l’offerta sanitaria resta carente e fortemente eterogenea sul territorio. Medicina di genere, appropriatezza, organizzazione del territorio saranno quindi il motore pulsante della necessaria riorganizzazione sanitaria mirata alla presa in carico della persona a livello territoriale.

* Direttore Laboratorio Lean & Value Based Management Dipartimento Management, Finanza e Tecnologia - Università LUM Giuseppe Degennaro


© RIPRODUZIONE RISERVATA