Aziende e regioni

Nel Ssn da riformare vanno rivedute e corrette anche le regole dell'accreditamento

di Ettore Jorio *

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24 Esclusivo per Sanità24

La sanità di domani dovrà essere certamente diversa da quella che ha fatto flop nell’approccio alla pandemia da coronavirus e che ha abbandonato il territorio per privilegiare, anacronisticamente, il livello essenziale della spedalità. Ma anche quella che ha consentito a un privato di assicurarsi sempre maggiori postazioni a discapito del pubblico, spesso complice nel fare registrare frequentemente il mancato funzionamento delle diagnostiche più sofisticate, attrattivo del ricorso agli accreditati privati. Stessa cosa verso la assistenza sociosanitaria a pagamento, cui fanno oramai ricorso in tanti, visti i tempi di accesso alle prestazioni assicurate a carico del Ssn, persino a opera di chi è costretto ad impegnarsi i gioielli della nonna. Dunque, anche diversa da quella di oggi!
Insomma, occorre rimediare, e subito, a una sanità che è assente dal territorio, piena zeppa di insopportabili liste di attesa e che, di conseguenza, spolpa la collettività sino all’osso, specie quella che è colpita da malattie di frequente senza soluzione per chi arriva in ritardo alla relativa diagnosi.
Con la nazione assistibile che cambia i suoi connotati anagrafici, economici, razziali e culturali v’è estremo bisogno di una tutela della salute capace di cambiare pelle adeguandosi ai nuovi fabbisogni epidemiologici, peraltro mai rilevati, e presidiando il Paese a difesa dei rischi epidemici sempre dietro l’angolo (es. l’attuale colera devastante e senza precedenti nella non lontana Siria).
Per realizzare ciò occorre una revisione culturale per guadagnare l’approdo sicuro, dal quale generare una assistenza più vicina a quelli che erano gli ideali ispiratori della riforma del 1978, istitutivi del Ssn e introduttivi di una assistenza centrifuga, da garantire sul territorio e quindi in prossimità della dimora degli assistibili, da considerare assistiti perché beneficiari degli interventi di prevenzione in ambienti di vita e di lavoro.
Si diceva di ideali, rimasti tali a causa del mancato completamento dell’opera disegnata dalla legge 833/1978 e dello stravolgimento in negativo prodotto dalla successiva aziendalizzazione, peggiorato oggi da una sanità divenuta strumento di ricchezza pretesa più dalle associazioni rigidamente imprenditoriali che da quelle di tutela dei consumatori di salute: gli individui.
A tutto questo si è aggiunta la crisi economica interminabile e il debito pubblico a valori insopportabili, cui si associano problemi contingenti del tipo quelli sofferti oggi dell’aumento dei costi energetici, che nella sanità H24 costituiscono un elemento di spesa fissa a quantità estrema.
Prescindendo da un aziendalismo che andrebbe quantomeno ripensato, magari agenzificando il sistema, occorre da subito intervenire su un malessere generale: il deviante uso che si fa da decenni dell’istituto dell’accreditamento, cui fa troppo spesso pedissequo e quindi acritico seguito la stipulazione dei contratti (ex art. 8 quinquies, vigente d.lgs. 502/1992). Lo si tratta quasi come se fosse un atto dovuto dalla pubblica amministrazione sanitaria. Non è affatto così, ove mai l’obbligo della stessa consisterebbe nell’assicurare le condizioni di accreditamento alle strutture pubbliche, relativamente ai requisiti e alle condizioni di funzionalità dettate dal Dm 70 del 2015, eluso in diverse regioni, massimamente in Calabria, ove l’attuale commissario ad acta sta provando a rimediare dopo decenni di dolosa disattenzione verso il problema.
Dunque, necessita una concreta revisione delle regole applicate, via via adattate regionalmente con la complicità di una prassi burocratica inaccettabile, che hanno reso l’accreditamento istituzionale uno strumento creativo di business, rilasciato quasi sempre senza la ineludibile programmazione che l’imponga. Piuttosto che essere posto a garanzia della omogeneità, perseguiti in regime di concorrenza amministrata pubblico/privato secondo le regole dettate dal d.lgs. 229/1999.
Quella programmazione che costituisce l’argine di definizione del fabbisogno assistenziale che una regione esprime, cui occorre necessariamente rimediare attraverso, per l’appunto, il trinomio autorizzazione (non ostativa alla pianificazione dell’offerta di salute regionale), accreditamento e accordi contrattuali.
Un’attività - quella relativa al rilascio dell’accreditamento (ma anche alla autorizzazione all’esercizio erroneamente non negata ad alcuno per una incredibile confusione che si fa nella lettura dei dicta della Consulta) - da svolgere pertanto nell’esclusivo interesse pubblico allo scopo di assicurare all’utenza tutta la reale copertura in progress del fabbisogno epidemiologico dalla stessa espresso. Di conseguenza, aperto all’intervento privato individuato per differenza tra il fabbisogno generale – rilevato, verificato, aggiornato e programmato - meno quello assicurato dal pubblico erogatore, maggiorata nella misura massima del 10%, garante delle eventuali diminuzioni di offerta nel periodo di durata dell’accreditamento. Non solo. Occorre fare ciò assicurando la maggiore distribuzione della relativa erogazione per branca specialistica, evitando ogni forma di affollamento nei centri urbani ovvero nella prossimità di nuclei ad alta intensità demografica ma anche a tutela dell’utenza periferica.
Invece no. Non si rileva, come dovere, il fabbisogno epidemiologico e il rischio epidemico e si accontenta un po’ tutti.
Di tutto questo ne sono piene le regioni, specie le solite reprensibili che trattano la programmazione come "la peggiore suocera si comporta con la nuora". Bistrattata a tal punto da essere diventata il risultato del peggiore "copia e incolla", senza la preventiva rilevazione dei dati epidemiologici sul territorio e la corretta analisi dei flussi, quasi sempre bugiardi, incompleti per non dire assenti, per assenza ovvero insufficienza in organico di statistici e informatici utili allo scopo.

* Dipartimento di Scienze aziendali e giuridiche, Università degli Studi della Calabria


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