Dal governo

Il futuro del Ssn in una prospettiva storica

di Francesco Taroni (Tratto da “Politiche sanitarie in Italia. Il futuro del Ssn in una prospettiva storica”, Il Pensiero scientifico editore, 2011)

L’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale è stata descritta come “un paese
avvilito e stremato” in cui lo sfaldamento del tessuto sociale prevaleva sulle
distruzioni materiali (Lanaro, 1992:35). Le condizioni dell'economia italiana e
le sue prospettive di sviluppo non erano comparativamente molto peggiori delle
estese distruzioni subite da Francia e Germania, le grandi potenze europee d'anteguerra
(Sapelli, 2008). In Italia, strade e ferrovie avevano subito danni ingenti
e la produzione agricola si era dimezzata, ma i danni dell'industria erano stimati
dalla Banca d'Italia attorno all'otto per cento del valore degli impianti (De Cecco,
1974:285) e secondo le valutazioni di Benedetto Saraceno già nel 1949 il
reddito nazionale raggiunse livelli non distanti da quelli d'anteguerra (Saraceno,
1969). Le condizioni di vita della popolazione erano invece pessime per svariati
motivi fra cui il difficile ritorno della grande massa di reduci dai teatri di guerra
e dai campi di prigionia; l'elevata disoccupazione e la fortissima inflazione che
erodeva il potere d'acquisto ed aumentava il costo della vita (il “carovita”), cresciuto
di ben 29 volte nel 1946 e di ben 44 volte nel 1947 rispetto al 1939 (Silei,
2004:35), anche per i generi di più immediata necessità (il “caropane”). Persino
un rigidissimo inverno esacerbava gli effetti dell'esperienza dell'ultimo anno di
guerra combattuta nel territorio nazionale (Lanaro, 1992:11 e segg.).
Il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione aveva provocato
fin dai primi anni di guerra un aumento delle malattie infettive, che invertiva
l'andamento emergente alla fine degli anni ‘30 (D'Alessandro e Bevere,
1951). Descrivendo nel dicembre 1944 la condizione sanitaria nelle zone liberate
dell'Italia del Sud, il capo della delegazione medica americana Myron
Taylor aveva segnalato che “se dovesse scoppiare un'epidemia qui, spazzerebbe
via tutti, tanto basse sono le resistenze di tutta la popolazione. Le medicine
sono molto scarse e, fino a poco tempo fa, praticamente inesistenti” (cit. in Bud,
2007:85). Nel 1941 vi era stato un aumento generalizzato delle malattie infettive
notificate, passate ad un tasso complessivo di 8,1 per mille rispetto al 6,4
del 1940, il valore più basso dell'ultimo quinquennio. Nel 1942, a fronte di
una riduzione nel tasso complessivo di notifiche da imputarsi presumibilmente
ad una ridotta segnalazione, vi era stato un aumento superiore al 25% rispetto
all'anno precedente dei casi di tifo e paratifo, uno degli indici più sensibili delle
condizioni igieniche, oltre all'incremento di malaria e sifilide (Russo, 1948).

Mortalità in aumento
Una pubblicazione Istat che metteva ordine nelle statistiche delle cause di
morte del decennio 1938-1948 documenta che la mortalità generale aveva cominciato
ad aumentare fin dal 1940 raggiungendo il picco di 15,9 morti per mille
abitanti nel 1944, contro il 13,4 per mille del 1939 (Tizzano, 1950) .
Il progressivo aumento della mortalità generale durante gli anni della guerra era
dovuto principalmente alle malattie infettive ed in particolare alla recrudescenza
dei flagelli tipici del periodo fra le due guerre, tubercolosi (+28%), malaria
(+54%) e tifo (+44%), la cui mortalità si mantenne elevata rispetto al periodo
pre-bellico anche quando la mortalità generale cominciò ad attestarsi attorno a
valori analoghi a quelli osservati nel 1939 (Petragnani, 1953). La gravissima
epidemia di tifo che aveva colpito la città di Napoli (Soper et al., 1947), descritta
da Curzio Malaparte nel suo romanzo “La pelle” (Malaparte, 2010), mise in
grande allarme le forze armate alleate che la combatterono con un massiccio
spargimento di DDT sulle persone e sulle cose (Wheeler, 1946), documentato
anche fotograficamente dalle riviste americane dell'epoca (cfr. Fred Soper's papers
in www.profiles.nlm.nih.gov.). La malaria era ricomparsa anche nelle aree
dichiarate indenni, con una recrudescenza analoga a quella osservata durante
la prima guerra mondiale che si protrasse oltre la fine della guerra (Snowden,
2006:182). L'epidemia che investì la provincia di Latina nel 1944-1946 e persistette
a lungo malgrado l'uso del DDT (Mosna e Alessandrini, 1950 e 1951) non
aveva però nulla di naturale, in quanto provocata dall'allagamento delle paludi
Pontine con acqua salmastra per il sabotaggio delle pompe di drenaggio da parte
dell'esercito tedesco in ritirata. Snowden considera questo uno dei primi atti
moderni di guerra biologica (Snowden, 2008) non senza contestazioni sul piano
strettamente giuridico (Geissler e Guillemin, 2010). L'allagamento fu certamente
realizzato scientificamente e con piena consapevolezza degli effetti sanitari
di lungo periodo, malgrado l'intervento di Missiroli e Mosna dell'Istituto Superiore
di Sanità su due altolocati malariologi nazisti ed una inutile lettera di
segnalazione del direttore Marotta alla Direzione generale sanità del Ministero
dell'Interno (Majori e Napolitani, 2010:39 e 137). L'aumento della mortalità per
tubercolosi e di quella polmonare in particolare, passata da 625 morti per milione
di abitanti del 1939 a 802 nel 1943, aveva interrotto il progressivo declino
osservato per tutti gli anni ‘30 (Tizzano, 1950; D'Alessandro e Bevere, 1951).
Nel 1945 i morti per tubercolosi sopravanzarono quelli osservati nel 1939 di
oltre 8000 casi, con un tasso di mortalità specifico passato da 761 a 930 per
milione di abitanti, dopo di che la mortalità per tubercolosi riprese l'andamento
decrescente già presente negli anni ‘30, per scendere a 475 morti per milione nel
1948 e ridursi di oltre il 70% fra il 1947 ed il 1953, senza però una concomitante
riduzione della frequenza di malattia (Drolet e Lowell, 1955), anche grazie alla
lenta diffusione della terapia con streptomicina, sottoposta ad un severo razionamento
(vedi oltre). La mortalità per polmonite rimase però per alcuni anni in
crescita, rappresentando la causa di morte più frequente in età pediatrica.
Le istituzioni sanitarie versavano in una profonda crisi finanziaria e strutturale

Ospedali al collasso
Gli Enti ospedalieri, inegualmente distribuiti nel territorio nazionale fra
nord e sud e fra città e campagna, duramente provati dalle distruzioni e dalle
requisizioni subite durante la guerra, vedevano i loro patrimoni falcidiati dalla
svalutazione e dall'inflazione (cfr. Capitolo 4). L'apparato previdenziale, di cui
erano parte integrante anche le casse mutue sanitarie anarchicamente proliferate
durante il regime, era descritto alla fine della guerra come “un imponente
edificio in rovina” (Cabibbo, 1944), in cui alla crisi strutturale si erano aggiunti
gli eventi congiunturali della disoccupazione, dell'inflazione dei prezzi e della
(+54%) e tifo (+44%), la cui mortalità si mantenne elevata rispetto al periodo
pre-bellico anche quando la mortalità generale cominciò ad attestarsi attorno a
valori analoghi a quelli osservati nel 1939 (Petragnani, 1953). La gravissima
epidemia di tifo che aveva colpito la città di Napoli (Soper et al., 1947), descritta
da Curzio Malaparte nel suo romanzo “La pelle” (Malaparte, 2010), mise in
grande allarme le forze armate alleate che la combatterono con un massiccio
spargimento di DDT sulle persone e sulle cose (Wheeler, 1946), documentato
anche fotograficamente dalle riviste americane dell'epoca (cfr. Fred Soper's papers
in www.profiles.nlm.nih.gov.). La malaria era ricomparsa anche nelle aree
dichiarate indenni, con una recrudescenza analoga a quella osservata durante
la prima guerra mondiale che si protrasse oltre la fine della guerra (Snowden,
2006:182). L'epidemia che investì la provincia di Latina nel 1944-1946 e persistette
a lungo malgrado l'uso del DDT (Mosna e Alessandrini, 1950 e 1951) non
aveva però nulla di naturale, in quanto provocata dall'allagamento delle paludi
Pontine con acqua salmastra per il sabotaggio delle pompe di drenaggio da parte
dell'esercito tedesco in ritirata. Snowden considera questo uno dei primi atti
moderni di guerra biologica (Snowden, 2008) non senza contestazioni sul piano
strettamente giuridico (Geissler e Guillemin, 2010). L'allagamento fu certamente
realizzato scientificamente e con piena consapevolezza degli effetti sanitari
di lungo periodo, malgrado l'intervento di Missiroli e Mosna dell'Istituto Superiore
di Sanità su due altolocati malariologi nazisti ed una inutile lettera di
segnalazione del direttore Marotta alla Direzione generale sanità del Ministero
dell'Interno (Majori e Napolitani, 2010:39 e 137). L'aumento della mortalità per
tubercolosi e di quella polmonare in particolare, passata da 625 morti per milione
di abitanti del 1939 a 802 nel 1943, aveva interrotto il progressivo declino
osservato per tutti gli anni ‘30 (Tizzano, 1950; D'Alessandro e Bevere, 1951).
Nel 1945 i morti per tubercolosi sopravanzarono quelli osservati nel 1939 di
oltre 8000 casi, con un tasso di mortalità specifico passato da 761 a 930 per
milione di abitanti, dopo di che la mortalità per tubercolosi riprese l'andamento
decrescente già presente negli anni ‘30, per scendere a 475 morti per milione nel
1948 e ridursi di oltre il 70% fra il 1947 ed il 1953, senza però una concomitante
riduzione della frequenza di malattia (Drolet e Lowell, 1955), anche grazie alla
lenta diffusione della terapia con streptomicina, sottoposta ad un severo razionamento
(vedi oltre). La mortalità per polmonite rimase però per alcuni anni in
crescita, rappresentando la causa di morte più frequente in età pediatrica.

La crisi delle istituzioni sanitarie
Le istituzioni sanitarie versavano in una profonda crisi finanziaria e strutturale.
Gli Enti ospedalieri, inegualmente distribuiti nel territorio nazionale fra
nord e sud e fra città e campagna, duramente provati dalle distruzioni e dalle
requisizioni subite durante la guerra, vedevano i loro patrimoni falcidiati dalla
svalutazione e dall'inflazione (cfr. Capitolo 4). L'apparato previdenziale, di cui
erano parte integrante anche le casse mutue sanitarie anarchicamente proliferate
durante il regime, era descritto alla fine della guerra come “un imponente
edificio in rovina” (Cabibbo, 1944), in cui alla crisi strutturale si erano aggiunti
gli eventi congiunturali della disoccupazione, dell'inflazione dei prezzi e della
svalutazione della moneta (De Cecco, 1974) che avevano determinato una crisi
finanziaria all'intero settore previdenziale che si sarebbe protratta fino agli anni
‘50 (Rocchi, 1954). Poiché erano stabilite in misura fissa, tutte le prestazioni
economiche erogate dagli istituti previdenziali, a cominciare dalle pensioni,
diventarono largamente inadeguate rispetto al costo della vita. Inflazione e
svalutazione avevano depauperato anche le riserve degli Enti previdenziali e
dell'INPS in particolare, affidate alla capitalizzazione ed investite in titoli di
stato, mentre gli alti tassi di disoccupazione avevano ridotto il gettito contributivo
di tutti gli enti. Inoltre, la divisione in due dell'Italia aveva interessato anche
l'amministrazione degli Enti previdenziali nazionali, in particolare dell'INPS,
con una sede a Bari amministrata da un Commissario straordinario nominato dal
governo provvisorio del Regno del Sud e l'altra a Vittorio Veneto, nella Repubblica
Sociale Italiana che deteneva la quasi totalità del patrimonio finanziario
stimato in 8 miliardi di lire (Sepe, 1999:270; Silei, 2004:29).
In molti paesi “guerra e welfare erano andati a braccetto” (Judt, 2003:73) alimentando
grandiosi progetti di riforma sociale. In Gran Bretagna già nel 1942 il
Rapporto elaborato da William Beveridge (cfr. Capitolo 2) aveva minuziosamente
descritto i capisaldi del nuovo stato sociale che le nazioni alleate avrebbero
realizzato dopo l'immancabile vittoria tracciando la strada verso la “nuova Gerusalemme”
(Beveridge, 1942; Harris, 1975). Il grandioso progetto di “liberazione
dal bisogno” lanciato dall'eroica Inghilterra venne raccolto da un gran numero
di paesi (Witte, 1945). Negli Stati Uniti, il Presidente Truman col suo discorso al
Congresso del novembre del 1945 aveva rinnovato il sogno di un'assicurazione
sanitaria universale di cui fece anche uno dei punti centrali della sua vittoriosa
campagna elettorale del 1948 (Starr, 1982:280; Engel, 2002:235). In Canada,
il Rapporto sulla Sicurezza Sociale preparato nel 1943 da Leonard Marsh, un
allievo di Beveridge alla London School of Economics, seguiva fedelmente le
linee del Rapporto inglese di un “minimo sociale garantito” a tutti i cittadini, che
comprendeva anche un'assicurazione sanitaria universale (Marsh, 1975; Maioni,
2004). In Francia, Alessandro Parodi, Ministro del Lavoro e della Sicurezza
Sociale del primo governo della Francia liberata costituito il 9 settembre 1944,
istituì la Cassa Nazionale della Sicurezza Sociale, in un vasto progetto riformatore
consolidato dalle ordinanze Laroque dell'ottobre 1945 ed alimentato dal piano
Debré in cui la riforma del sistema ospedaliero, la riorganizzazione della formazione
medica e lo sviluppo della ricerca (Debré, 1944) erano elementi fondamentali
del progetto di modernizzazione perseguito dal governo De Gaulle (Larcan
e Lamaire, 1995). Il preambolo alla Costituzione della IV Repubblica votato nel
1946 prometteva a tutti i francesi un nuovo sistema universale di assicurazione
sociale che avrebbe portato “prosperità e felicità alla nazione” (Masulli, 2005).
In Svezia, la legge sull'assicurazione sanitaria nazionale in attuazione del documento
dei “27 punti” (la versione svedese del Rapporto Beveridge) venne approvata
all'unanimità nel 1947, col supporto anche dei medici (Immergut, 1989). In
Italia invece il drammatico peggioramento delle condizioni di salute della popolazione
e la profonda crisi del sistema previdenziale, vanto del regime fascista
provocarono soltanto una serie interventi di emergenza destinati ad integrare le
provvidenze economiche di alcune categorie ma non indussero a dedicare un'attenzione
altro che marginale alle politiche sociali e a quelle sanitarie in particolare.
Malgrado l'apparente concordia (seppure discordante, come sottolineava
Dossetti) che sembrava animare i governi creati dai partiti antifascisti, i lavori
dell'Assemblea Costituente impegnata nell'elaborazione della nuova Costituzione
repubblicana (Novacco, 2000) ed il “consenso previdenziale” di esperti, partiti
politici e organizzazioni sindacali (Giua, 1947), i propositi di una nuova politica
sociale rimasero limitati ad una ristretta cerchia di addetti ai lavori, rigidamente
separati fra i “previdenzialisti”, attenti agli aspetti politici ed istituzionali degli
istituti previdenziali esistenti, e i “sanitari”, di prevalente estrazione igienistica e
principalmente interessati all'organizzazione della sanità pubblica.

NHS e inerzia italiana
L'inerzia italiana nel campo delle politiche sociali contrasta soprattutto con
il progetto di trasformazione sociale che portò, fra l'altro, all'approvazione in
Gran Bretagna della legge istitutiva del National Health Service (NHS) nel 1946.
L'avvio del National Health Service nel “giorno designato”, il 5 luglio 1948, fu
interpretato come una scommessa sul futuro, una sfida di civiltà alle avverse
condizioni economiche del momento, tanto che il primo bilancio del governo laburista
di Attlee, uscito inaspettatamente trionfatore dalle elezioni politiche del
dopoguerra, si dice venisse steso dal Ministro Dalton con “a song in his heart”,
ed un sorriso sul volto (Page, 2007). Il principale artefice della realizzazione
del NHS Aneurin Bevan, Ministro della Sanità, lasciò scritto di quei giorni che
“dobbiamo essere orgogliosi del fatto che, malgrado tutte le nostre preoccupazioni
sulla situazione economica e finanziaria, siamo comunque stati capaci di
fare la cosa più civile che esista al mondo – anteporre il benessere delle
persone malate a qualsiasi altra considerazione” (Bevan, 1950). A differenza
della Gran Bretagna, l'Italia non si dimostrò capace di fare “la cosa più civile
che esista al mondo”, limitandosi ad inseguire le necessità del momento piuttosto
che attuare le nuove politiche sociali intraprese in altri paesi, di cui pure le
giungevano gli echi. Anche le mozioni timidamente riformiste della Commissione
per la riforma previdenziale presieduta da Ludovico D'Aragona, salutata
all'insediamento come “la piccola Costituente della previdenza” e lodata per
l'equilibrio delle sue conclusioni, vennero immediatamente e quietamente messe
da parte nel silenzio generale di partiti e sindacati. Queste scelte conferirono
implicitamente una sostanziale continuità alle istituzioni previdenziali e mutualistiche
create dal regime fascista, che transitarono pressoché immodificate negli
uomini e nell'organizzazione nel nuovo ordinamento repubblicano.


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