Dal governo

Con il Programma nazionale ricerca timidi passi e spiccioli su R&S. Serve una svolta

di Silvio Garattini (direttore Irccs Istitituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri” - Milano)

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L’Italia è notoriamente un Paese che non ama la ricerca scientifica. La cultura, di tipo prevalentemente umanistico, ne rifiuta l’appartenenza. I Governi che si succedono, quando sono di buon umore, ritengono la ricerca scientifica un fiore all’occhiello da mettere quando avanzano un po’ di soldi, ma al primo accenno di crisi economica la prima voce da tagliare è proprio la ricerca.
Il Parlamento fa di tutto per mortificare la ricerca: impedisce che ci si occupi di organismi geneticamente modificati (Ogm), ma sostiene la ciarlataneria di improbabili cure anticancro; celebra l’impresentabile formula segreta di Stamina, ma penalizza i ricercatori e la società con una strampalata legge contro la sperimentazione animale. Si dimentica che la ricerca scientifica è il motore essenziale per lo sviluppo di un Paese e che senza ricerca non può esistere innovazione e disponibilità di prodotti ad alto valore aggiunto.
Il risultato di questo atteggiamento è sotto gli occhi di tutti: abbiamo più o meno la metà dei ricercatori rispetto alla media dei Paesi europei e in ricerca spendiamo meno della metà degli altri rispetto al prodotto interno lordo. Per fortuna, a seconda dei casi, Grecia e Portogallo ci salvano dall’essere il fanalino di coda. Bisogna ricordare che all’atteggiamento del Governo fa eco, non sorprendentemente, una scarsa propensione anche da parte dell’industria a investire in ricerca.
Eppure i ricercatori italiani sono bravi, perché hanno una produttività non inferiore ai loro colleghi stranieri che sono trattati in modo ben diverso. Ma i nostri ricercatori sono troppo pochi per poter costituire una “massa critica” capace di incidere sui programmi internazionali e sui grandi temi della ricerca nelle scienze della vita che tanta importanza hanno per la salute individuale e collettiva.
Proprio per questo stato di cose e per il senso di frustrazione che ne consegue, ha destato grande interesse la notizia di un Piano nazionale della Ricerca (Pnr) e ha suscitato molte speranze l’idea che finalmente il Governo si sia deciso a considerare la ricerca un pilastro portante dello sviluppo del Paese. I dati sono ormai noti a tutti: sono stati stanziati 2,5 miliardi di euro. Tuttavia, come riportato da Il Sole 24 Ore del 1° maggio, tale cifra deve essere spalmata su tre anni, riducendo perciò la disponibilità annuale a poco più di 800 milioni di euro che comprendono: internazionalizzazione (35 milioni annui), capitale umano (2.000 nuovi dottorati all’anno), programma nazionale infrastrutture (107 milioni), ricerca industriale (circa 150 milioni), programma per il Mezzogiorno probabilmente su fondi europei (135 milioni) e infine 10 milioni all’anno per migliorare l’efficienza e la qualità della spesa. Queste cifre vanno ulteriormente divise in 12 aree di intervento fra cui sono considerate di primaria importanza aerospazio, agrifood, fabbrica intelligente e salute, mentre sono considerate ad alto potenziale blue growth, chimica verde, design-creatività made in Italy e cultural heritage. In transizione sono considerate smart communities e tecnologie per gli ambienti di vita e infine sono “consolidate” energia e mobilità. È chiaro che non tutte le aree hanno lo stesso peso e quindi è difficile stabilire le suddivisioni della cifra disponibile.
Anche considerando che le prime quattro aree, quelle prioritarie, abbiano fino al 50% dei fondi, nel migliore dei casi spetterebbero alla salute probabilmente non più di 100 milioni all’anno. Come si possa con questa cifra far fronte alle infrastrutture, alla ricerca industriale, al Mezzogiorno e a un rilancio della ricerca di base che langue priva di risorse è molto difficile da immaginare.
Per quanto riguarda il capitale umano potrebbe spettare alla salute qualcosa come 250 dottorati in più il che, anche solo considerando il numero di università, Irccs, enti non profit di ricerca, potrebbe significare un nuovo dottorato per ogni istituzione all’anno. È pensabile che questo reclutamento possa fermare la ormai inarrestabile fuga all’estero dei nostri migliori laureati e ricercatori?
I dubbi sulla reale consistenza di questo piano per la ricerca aumentano se si considera che nel 2014 e nel 2015 non è entrato in funzione un piano elaborato dal precedente Governo che forse era stato più generoso. Quindi, non si tratterebbe di nuovi fondi, ma di fondi già stanziati e mai spesi. Inoltre, è noto che i fondi governativi, non solo quelli per la ricerca, hanno la caratteristica di non essere mai puntuali: vengono annunciati, ma non si sa mai quando arrivano, rendendo in questo modo difficile la programmazione e la gestione della ricerca. Fra l’altro è molto difficile fare calcoli per sapere quanto gli 800 milioni annui recuperino risorse rispetto agli anni in cui la situazione era, si fa per dire, migliore, perchè non esistono dati storici attendibili riguardanti la spesa per la ricerca in generale e in particolare per la salute.
La ricerca scientifica non è un’attività di pertinenza nominale di un ministero, il Miur, che viene frammentata in tanti altri ministeri. Dovrebbe essere un’attività che dipende dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e gestita attraverso un organismo ad hoc come ad esempio l’Agenzia italiana per la Ricerca scientifica (Airs). Quest’ultima, secondo la proposta del Gruppo 2003, dovrebbe raggruppare tutte le risorse disponibili e, con adeguata organizzazione di supporto, realizzare bandi di concorso per poter poi scegliere le migliori proposte di ricerca.
Anche se c’è un po’ di delusione, si spera che questa attenzione alla ricerca sia un primo timido passo per un’inversione di tendenza che tuttavia deve essere molto più vigorosa per rendere il Paese competitivo rispetto almeno ai Paesi europei


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