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Caccia ai fondi Ue per la ricerca: Italia ferma all’8%. Il 10% chiesto dal Pnr è ancora lontano

di Marzio Bartoloni

Fino a marzo scorso l'Europa ha messo in palio per la ricerca attraverso 200 bandi 14,5 miliardi di euro dei 77 miliardi previsti da qui ai prossimi 4 anni nel piano Horizon 2020. E l'Italia – attraverso i suoi centri di ricerca, le università e le imprese - ne ha conquistati 1,176 miliardi, l'8,1% del totale migliorando di poco le performance di ottobre scorso (quando eravamo al 7,8% dei fondi messi allora complessivamente a bando). Ma nonostante il piccolo balzo in avanti il nostro Paese resta ancora ben lontano dalle potenze della ricerca: Germania e Inghilterra ne hanno conquistati il doppio, rispettivamente 2,574 e 2,172 miliardi. Così come resta dietro i Paesi a noi tradizionalmente più vicini. E cioè la Francia (1,5 miliardi conquistati a marzo scorso) e la Spagna (1,285 miliardi), facendosi affiancare anche dall'Olanda (1,137 miliardi), Paese molto più piccolo per popolazione, ricercatori a disposizione e forze in campo.

Il Pnr. Un ritardo, quello italiano, che arriva da lontano - anche nel vecchio programma Ue della ricerca 2007-2013 alla fine conquistammo poco più dell'8% dei fondi messi in palio – e che ci vede arrancare dietro Paesi più performanti e soprattutto faticare a raggiungere il target del 10% dei finanziamenti Ue da conquistare previsto e scritto nero su bianco dal Governo nel Piano nazionale della ricerca (Pnr) 2015-2020. Il Piano varato con ritardo lo scorso 1 maggio dal Cipe allinea le strategie e le priorità di ricerca italiane a quelle europee proprio per provare a migliorare le nostre performance nella conquista dei fondi, da qui «l'aspettativa che il sistema della Ricerca Italiano – scrive un passaggio del Pnr - riuscirà ad aggiudicarsi circa il 10% delle risorse stanziate». Per ora però l'obiettivo non è vicino, per questo il Governo deve velocizzare l'attuazione del Pnr per provare a recuperare il ritardo. Ma quali sono finora i nostri punti di forza e di debolezza nella corsa ai fondi Ue per la ricerca? Dai risultati delle “call” europee finora pubblicate e che hanno assegnato i fondi siamo forti in alcuni settori della ricerca industriale: dallo spazio (ben il 14,3% dei fondi totali conquistati) ad alcune linee di ricerca sulle nanotecnologie (oltre il 12% degli stanziamenti vinti) fino ai bandi previsti per le Pmi (al 10%) su cui finalmente le nostre piccole e medie imprese hanno deciso di mettersi in gioco.

Il confronto con gli altri Paesi. Sempre sopra la nostra media anche i risultati sui bandi per la ricerca agroalimentare e quelli sui trasporti. Siamo invece indietro nei settori su cui l'Europa finora ha investito più risorse: dall'Ict dove abbiamo conquistato 135 milioni su 1,787 miliardi (il 7,6%) alla salute (94 milioni su 1,291 miliardi: in pratica il 7,3%). Andiamo poi molto male su quella che una volta era definita la “ricerca di base”: l'Erc - il Consiglio europeo della ricerca - ha stanziato finora 2,274 miliardi per i ricercatori più bravi, ma il budget sottoscritto dall'Italia è di soli 107 milioni (il 4,7%). Un risultato modesto, quest'ultimo, che trova le sue ragioni anche nei disinvestimenti dei vari Governi degli ultimi 10-15 anni nella R&S che - tra tagli ai fondi, blocco del turn over negli enti di ricerca e nelle università, credito d'imposta poco sostenuto - ha prodotto un divario anche nelle risorse umane a disposizione. L'Italia secondo gli ultimi dati Eurostat può contare su circa 118mila ricercatori contro gli oltre 360mila della Germania, i 260mila dell'Inghilterra e i 265mila della Francia. Anche la Spagna ne ha più di noi (123mila), mentre la piccola Olanda ne conta solo 72mila. A dimostrazione di come il caso olandese, viste i risultati, sarebbe un caso da studiare. Insomma abbiamo metà dei cervelli degli altri e anche da qui si spiegano i risultati poco brillanti italiani. E certo i 1000 ricercatori previsti dall'ultima legge di stabilità rischiano di non spostare granché le nostre performance.


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