Dal governo

L’allarme Anaao: «Rinuncia alle cure, ecco i guasti delle scelte del governo»

La ricerca Censis-Rbm, presentata oggi in occasione del Welfare Day, non dice niente di nuovo a chi, come l'Anaao Assomed e le altre organizzazioni sindacali dei Medici e dei dirigenti sanitari, da tempo va denunciando la progressiva, e non più silenziosa, diminuzione del perimetro della tutela pubblica della salute ed il conseguente incremento del welfare privato.
La convivenza di spesa privata ai livelli più alti tra i Paesi OCSE, direttamente dalle tasche dei cittadini o con l'intermediazione di fondi o assicurazioni, e di italiani che non si curano per difficoltà economiche, rappresenta il migliore testimonial per l'esistenza della sanità duale, cui molti da tempo stanno lavorando, e per il “si curi chi può”. E, quindi, per un diritto alla salute declinato non più e non solo in base alla residenza, ma anche al reddito.
Se erano 9 milioni nel 2012 e sono diventati 11 milioni nel 2016, gli italiani che hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie a causa di difficoltà economiche, e circa il 10% quelli costretti ad indebitarsi per rispondere ai propri bisogni di salute, vuol dire che il definanziamento della sanità pubblica non si è mai interrotto, a dispetto dei giochi di parole del Governo. Il fatto poi che, in particolare, siano anziani e giovani, fasce sociali a basso reddito magari residenti nelle periferie urbane, a non riuscire ad ottenere dal servizio pubblico le prestazioni di cui avrebbero bisogno, spiega più di ogni analisi politica il voto di domenica. Alimentato non solo dalla protesta, ma anche dal senso di esclusione di pezzi crescenti di popolazione, il cui identikit rappresenta un vero fattore di rischio per la salute.
Se meno sanità, e magari meno sociale, vuol dire anche meno salute per chi ha difficoltà economiche o vive in determinate aree, significa che non ci si riconosce più negli stessi principi di giustizia sociale. E le differenze diventano diseguaglianze e divaricazioni all'interno di una stessa comunità nazionale.
Anche il fatto che la maggioranza degli italiani ritiene “che solo il medico può decidere se la prestazione è effettivamente necessaria” e che l'operazione appropriatezza sia nata “per accelerare i tagli alla sanità e per trasferire sui cittadini il costo delle prestazioni”, rientra nel capitolo dell'avevamo detto. Basta rileggere i nostri comunicati stampa per trovare quasi le stesse parole.
Potremmo ritenerci soddisfatti di avere avuto ragione, ma la cronaca della morte annunciata di un servizio sanitario pubblico e nazionale, grande patrimonio civile e sociale, ci costringe ad interrogarci sul nostro ruolo di sindacato e di professionisti. Lo stesso dovrebbe fare la politica, riconoscendo i guasti prodotti da scelte all'insegna del definanziamento del sistema sanitario e della decapitalizzazione del lavoro dei suoi professionisti, vittime anche di un pregiudizio ideologico contro tutto ciò che è pubblico, funzionale a un processo di privatizzazione che aumenterà costi ed iniquità.


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