Dal governo

Dall’estate dei vertici all’autunno dei numeri

di Dino Pesole

Dall'incontro a Ventotene del 22 agosto tra Matteo Renzi, Angela Merkel e Francois Hollande, al bilaterale Italia-Germania del 31 agosto a Maranello, per chiudere con il vertice straordinario dei Capi di Stato e di governo di Bratislava del 16 settembre, il cui esito è stato esplicitamente criticato da Renzi, a causa della mancanza di scelte precise sul versante dei rifugiati e sulla crescita. Dopo un'estate all'insegna dei vertici, con molte promesse e dichiarazioni d'intenti, è giunto il momento delle decisioni.
Il confronto in sede europea ha prodotto un qualche risultato, ora che il governo sta per imboccare la curva decisiva in vista del varo della prossima legge di bilancio? Questione non da poco, se si considera che buona parte dell'estate è stata spesa in dibattiti, più o meno fondati, sui possibili margini di flessibilità che il governo potrebbe spuntare nel 2017, dopo aver ottenuto un margine di circa 14 miliardi nel 2016. Prima di tutto, va esaminato il nuovo scenario macroeconomico entro cui si colloca la manovra in via di definizione.
Con la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza che il governo si accinge ad approvare si prenderà ufficialmente atto del marcato rallentamento della crescita nell'anno in corso, del resto già reso evidente dai dati Istat relativi al secondo trimestre: nessuna variazione del Pil rispetto all'incremento dello 0,3% del periodo gennaio-marzo, con una proiezione per fine anno (in caso di variazione nulla anche nel terzo e quarto trimestre) dello 0,7 per cento.
Decimale in più o in meno, questa è la situazione. Dopo un 2015 che si è chiuso con una crescita dello 0,8% (corretta dall'Istat venerdì scorso allo 0,7%), quest'anno saremo più o meno allo stesso livello (0,9%), con l'inevitabile conseguenza che il deficit salirà nei dintorni del 2,4%-2,5%, rispetto alla precedente stima del 2,3%, e che non sarà possibile (anche a causa di un'inflazione assai vicina allo zero) ridurre il debito rispetto al livello del 2015, che ora l'Istat fissa a quota 132,2 per cento.

Pesa evidentemente l'effetto del rallentamento dell'economia globale, fotografato da ultimo dall'Ocse, che per l'Italia si traduce nella revisione al ribasso delle precedenti stime dall'1% allo 0,8% quest'anno e dall'1,4% ancora allo 0,8% nel 2017.
Il Centro studi di Confindustria non si spinge oltre un più modesto 0,5% per il prossimo anno, e anche la Commissione europea si accinge a rivedere al ribasso le sue stime primaverili.
In uno scenario così incerto, e di certo poco incoraggiante se si guarda alle tendenze di medio periodo, si inseriscono - per quel che ci riguarda - alcune variabili non da poco: la prima è tutta politica, e pesa in modo decisivo, se si considera che l'Italia andrà al voto a fine novembre per dire sì o no alla riforma costituzionale (appuntamento cui le capitali europee guardano con non poca preoccupazione), che in Francia si celebreranno le elezioni politiche il prossimo 23 aprile (con ballottaggio il 7 maggio), cui seguiranno le elezioni di ottobre in Germania.

Un anno di scadenze elettorali, che reca con sé non poche incognite e incertezze sull'esito finale del faticoso processo di integrazione europea.
Con quali concrete possibilità per il Governo (e qui siamo alla seconda variabile) di provare a invertire il ciclo con una manovra “espansiva” e coraggiosa?
I conti sono presto fatti. Una parte non trascurabile della prossima legge di bilancio è già sostanzialmente ipotecata, perché vanno neutralizzate le clausole di flessibilità (aumento di Iva e accise già iscritto nei saldi di finanza pubblica) per 15,1 miliardi. Per dirla più semplicemente, per una manovra che si prefigge l'obiettivo (sacrosanto e condivisibile) di ridurre le tasse, il primo obiettivo è quello di evitare che aumentino.
Si può far conto sul maggiore deficit già acquisito e autorizzato da Bruxelles, che in maggio ha consentito di fissare la nuova asticella per il 2017 all'1,8%, rispetto a un target iniziale dell'1,1%, successivamente corretto all'1,4 per cento (nel confronto con la stima di partenza si tratta di oltre 11 miliardi).
Si punta a un margine aggiuntivo e dalle ultime indiscrezioni si passerebbe a un deficit attorno al 2,1-2,2 per cento.
Gli altri 10 miliardi che serviranno a finanziare le misure in cantiere andranno recuperati altrove. In che modo?
Non pare in discussione che gli aiuti per le zone colpite dal terremoto del 24 agosto vadano conteggiati al di fuori del deficit. Per il resto, al momento l'esito della trattativa è tutto da verificare, e per la verità le ultimissime prese di posizione di autorevoli esponenti della Commissione Ue, dal vice presidente Valdis Dombrovskis al commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, non sembrano incoraggianti.
Da ultimo, il presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, non ha mancato di ricordare - giovedì scorso - che l'Italia è il paese cui è stato concesso il maggior margine di bilancio (19 miliardi nel 2015-2016).
Senza flessibilità – segnala il Centro studi Confindustria - permane il rischio di una correzione sui saldi di 16,6 miliardi.
Il tema è prioritario, ma occorre al tempo stesso superare un equivoco di fondo: non è certo la flessibilità da sola a poter risolvere i problemi di un'economia, come la nostra, che stenta a ripartire. I problemi dobbiamo risolverli in casa nostra.
Il che vuol dire fare le riforme, far partire gli investimenti, tagliare la spesa improduttiva per ridurre le tasse, aprire sul serio alla concorrenza e accrescere la produttività dell'intero sistema economico.


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