Dal governo

Secondo pilastro: salvataggio o naufragio del Servizio sanitario nazionale?

di Nino Cartabellotta *

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24 Esclusivo per Sanità24

La crisi di sostenibilità del Servizio sanitario nazionale (Ssn) negli ultimi anni è stata oggetto di analisi, studi e rapporti mirati ad identificarne le determinanti e proporre le possibili soluzioni. Se il definanziamento rappresenta ormai una costante irreversibile e vani sono stati gli sforzi per ridurre gli sprechi in sanità, la proposta più gettonata per ridare ossigeno al sistema è quella di potenziare il “secondo pilastro”, ovvero attingere a risorse da “terzi paganti”. Questa soluzione si è prepotentemente fatta largo per una serie di fattori: innanzitutto, attorno al concetto di “sanità integrativa” oggi ruota una variopinta terminologia che rende sempre più difficile la comprensione di un tema già ostico; in secondo luogo, la normativa stratificatasi negli anni ha creato un impianto legislativo estremamente frammentato che ha permesso alla sanità “integrativa” di diventare gradualmente “sostitutiva”; infine, la martellante campagna di un assioma basato su criticità apparentemente correlate: lo Stato investe sempre meno in sanità e di conseguenza la spesa out-of-pocket aumenta, quindi cresce il numero dei cittadini con difficoltà di accesso a servizi e prestazioni sanitarie, sino a rinunciare alle cure per problemi economici.

Secondo tale assioma la relazione tra queste criticità, che in realtà non è affatto lineare, ha una chiave interpretativa che porta verso un’unica soluzione: potenziare il secondo pilastro per salvare il Ssn facendo leva su slogan di persuasione sociale molto efficaci, quali «oltre 12 milioni di cittadini rinunciano alle cure» e «più di un italiano su quattro non sa come far fronte alle spese necessarie per curarsi e subisce danni economici per pagare di tasca propria le spese sanitarie».
Visto che nessun oste dubiterà mai della bontà del proprio vino, proviamo ad analizzare la veridicità dei singoli fattori per valutare se davvero il prodotto di questa equazione è solo uno, ovvero che il Ssn può essere messo in sicurezza potenziando il secondo pilastro.
Definanziamento della sanità pubblica. I numeri parlano da soli: dal 2013 al 2018 il finanziamento pubblico formalmente è aumentato di quasi € 7 miliardi, ma quelli sopravvissuti sono € 5,968 miliardi; nel periodo 2015-2018 l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica ha determinato, rispetto ai livelli programmati, una riduzione cumulativa del finanziamento del Ssn di € 11,54 miliardi; dal 2010 al 2016 la spesa sanitaria è diminuita in media dello 0,1% annuo; il Def 2018 ha ridotto il rapporto spesa sanitaria/Pil dal 6,6% del 2018 al 6,4% del 2019, al 6,3% nel 2020 e nel 2021.
Aumento della spesa out-of-pocket. Secondo l’Istat nel 2016 la spesa sanitaria privata ha superato i € 37,3 miliardi di cui oltre il 90% è out-of-pocket, ovvero quasi € 34 miliardi sono a carico del cittadino con una spesa pro-capite di € 565, superiore alla media Ocse. Se tale incremento è un dato incontestabile, le varie analisi sui consumi privati in sanità confermano che la spesa out-of-pocket solo in parte fronteggia le minori tutele pubbliche, in quanto rappresenta anche un indicatore di benessere che porta ad acquistare beni e servizi assolutamente futili, non sostenuti da alcuna base scientifica, sulla scia di consumismo, pseudo-diagnosi e preferenze individuali. Peraltro, non esiste alcuna evidenza che potenziare il secondo pilastro, ovvero aumentare la spesa intermediata, determini una riduzione della spesa out-of-pocket, che segue altre dinamiche.
Rinuncia alle cure. I catastrofici dati derivano da una mera “proiezione in valori assoluti dei risultati di un’indagine campionaria su 1.000 cittadini ai quali è stato chiesto se, nel corso dell’anno, avessero rinunciato o rinviato ad almeno una prestazione sanitaria senza però specificarne tipologia ed effettiva urgenza”. In realtà, secondo l’indagine europea sul reddito e le condizioni di vita delle famiglie (EU-SILC), gli italiani che hanno rinunciato a una o più prestazioni sanitarie sono meno di 5 milioni, un dato in linea con altri paesi europei. Inoltre, dall’indagine multiscopo Istat sulla salute risulta che la frequenza delle rinunce è proporzionale al numero di prestazioni, ovvero chi rinuncia a una prestazione ha già fruito di altre. Ecco che allora il roboante “12,2 milioni di italiani rinunciano alle cure”, si trasforma in un meno sensazionalistico “meno di 5 milioni di italiani hanno rinunciato ad almeno una prestazione sanitaria”. Ovviamente, non conoscendo la reale necessità o l’urgenza di tali rinunce, né tantomeno l’appropriatezza delle prestazioni non fruite, il loro potenziale impatto sulla salute è assolutamente ignoto.
• Difficoltà economiche. Nell’indagine Istat Eu-SILC alla domanda «Negli ultimi 12 mesi, ci sono stati periodi in cui non aveva i soldi per pagare le spese per malattie?» hanno risposto positivamente solo il 10,5% degli Italiani, una percentuale certamente rilevante, ma meno funesta e sensazionalistica dell’oltre il 25% della popolazione italiana.
Ecco allora che l’assioma portante che incita a rafforzare il secondo pilastro finisce per rivelarsi una sapiente strategia di marketing che ha combinato dati reali (definanziamento), intepretazione opportunistica di un fenomeno di mercato (aumento della spesa out-of-pocket) con i dati ottenuti da uno studio metodologicamente inadeguato e in conflitto di interessi, ma talmente legittimato dalla divulgazione pubblica da oscurare e prendere il sopravvento sui dati Istat, che invece provengono da ricerche rigorose e trasparenti, oltre che armonizzate a livello europeo.

Eppur funziona! Infatti, il numero dei fondi sanitari integrativi e delle polizze assicurative è in crescita costante, il welfare aziendale è diventato il mantra di lavoratori e imprese e la Legge di Bilancio 2017 ha introdotto una disciplina fiscale di favore a queste forme di welfare. Peccato che, rispetto a quanto previsto inizialmente dalla normativa, quasi il 60% delle prestazioni coperte dal secondo pilastro non siano affatto integrative, ma sostitutive di quelle già incluse nei Lea; inoltre, in relazione alla tipologia di prestazioni e della natura del terzo pagante, sono previste anche agevolazioni fiscali.
Considerato che tutto questo è favorito dall’estrema frammentazione della normativa, è indifferibile la necessità di un Testo Unico per la sanità integrativa che, adeguatamente riformata, può contribuire a salvare il Ssn solo se il nuovo impianto legislativo sarà in grado di: semplificare ed attuare una governance nazionale della giungla dei “terzi paganti”; garantire a tutti gli operatori del settore le condizioni per una sana competizione; far sì che il secondo pilastro sia realmente integrativo (e non sostitutivo) previo adeguato “sfoltimento” dei Lea; non finanziare indirettamente - attraverso la defiscalizzazione - servizi e prestazioni inefficaci e inappropriate e, soprattutto, tutelare il cittadino da derive consumistiche e di privatizzazione.

* presidente Fondazione Gimbe


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