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Spesa sanitaria delle famiglie a 40 mld, Fondazione Gimbe: «Il dato è reale ma l'allarme non c'è»

di Nino Cartabellotta (presidente della Fondazione Gimbe)

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24 Esclusivo per Sanità24

Puntuale come un orologio svizzero anche nel 2018 con il Welfare Day il rapporto RBM Salute-Censis ripropone dati sempre più catastrofici. Nell’impossibilità di aumentare i 12 milioni di italiani che rinunciano alle cure e il 25% della popolazione che subisce danni economici per pagare le spese sanitarie, quest’anno è allarme indebitamento: nell'ultimo anno 7 milioni di italiani “si sarebbero indebitati” per pagare le spese per la salute e 2,8 milioni “avrebbero dovuto usare” il ricavato della vendita di una casa o svincolare risparmi.

Il sodalizio RBM Salute-Censis si configura come un collaudato team di pallavolo: il prestigioso istituto di ricerca alza la palla, producendo ogni anno dati sempre più allarmanti e la compagnia assicurativa schiaccia sempre nella stessa direzione: la necessità di un “secondo pilastro” intermediato da fondi e assicurazioni è ormai inderogabile per ridurre la spesa delle famiglie e garantire la sostenibilità del servizio sanitario nazionale.

Gli inquietanti dati del Censis anche quest’anno proiettano su oltre 60 milioni di persone i risultati di un’indagine commissionata da Rbm Salute e realizzata tramite un questionario strutturato somministrato ad un campione rappresentativo di 1.000 adulti maggiorenni residenti in Italia. Numerose le criticità metodologiche: innanzitutto, non si conoscono le domande del questionario; in secondo luogo, le tecniche per selezionare gli intervistati non permettono di escludere un “campionamento di convenienza”; ancora, non vengono riportati margini di variabilità sulle stime ottenute; infine, il margine di errore del ± 3,1%, riferito all’intero campione, risulta di gran lunga più elevato per ciascuno dei sottogruppi ottenuti all’interno delle variabili di stratificazione (classe di età, genere, area geografica di residenza, ampiezza demografica del comune di residenza).

Lo scorso anno, per le stesse ragioni, il Ministero della Salute, con il comunicato stampa n. 75 del 31 luglio, aveva smentito i dati del Censis sulla rinuncia alle cure, sottolineando i limiti dello studio – identici a quelli del 2018 – che riportava risultati di gran lunga più catastrofici di quelli dell’Istat e dell’indagine europea sul reddito e le condizioni di vita delle famiglie.

Rispetto all’entità della spesa sanitaria out-of-pocket, il 3° Rapporto Gimbe conferma sì che la spesa delle famiglie nel 2016 sfiora i 40 miliardi di euro, ma non rileva nessun allarme sul suo incremento, che rimane stabile intorno al 18% sia nel periodo della crisi (2009-2016) sia nel periodo pre-crisi (2000-2008). Inoltre, l’analisi dettagliata della spesa out-of-pocket permette di mitigare ampiamente l’entità del fenomeno perché dei 40 miliardi:

• 3.362 milioni vengono “restituiti” dallo Stato sotto forma di detrazioni fiscali

• 1.310 milioni sono relativi all’acquisto di farmaci di fascia A, virtualmente a carico del Ssn, ma che i cittadini acquistano in autonomia per loro volontà

•1,5 miliardi sono destinati alla compartecipazione della spesa per i farmaci, ma di questi un miliardo viene sborsato per acquistare farmaci brand al posto degli equivalenti

• 5.900 milioni sono destinati a prodotti omeopatici, erboristici, integratori, nutrizionali, parafarmaci, etc., voce di spesa peraltro esclusa dai nuovi conti della sanità dell’Istat

• 5.215 milioni vengono spesi per farmaci di fascia C e di automedicazione, buona parte dei quali sono di efficacia non dimostrata

• 11.000 milioni (che includono € 1.300 milioni di ticket) sono destinati a visite specialistiche ed esami diagnostici di laboratorio e strumentali, di cui una variabile percentuale del 30-50% secondo stime internazionali è inappropriata

• 8.500 milioni vanno per le cure odontoiatriche (mai incluse nei livelli essenziali di assistenza)
• 5.255 milioni per l’assistenza ospedaliera, di cui oltre € 3.000 milioni per la long-term-care

• 1.000 milioni per protesi e ausili

Lo “spacchettamento” della spesa delle famiglie confuta di fatto l’ipotesi che gli esborsi dei cittadini siano destinati esclusivamente a fronteggiare le minori tutele pubbliche: infatti, almeno il 40% non viene speso per beni e servizi indispensabili a migliorare lo stato di salute, bensì soddisfa bisogni indotti dal benessere e dalla medicalizzazione della società e condizionati da consumismo, pseudo-diagnosi e preferenze individuali.

La controprova viene fornita dal fatto che nelle diverse Regioni la spesa out-of-pocket è proporzionale al reddito pro-capite e alla qualità dell’offerta pubblica: in altre parole, le famiglie spendono di più nelle Regioni del nord dove l’offerta dei servizi sanitari pubblici è adeguata, mentre quelle del sud si attestano tutte sotto la media, nonostante una qualità peggiore dei servizi.

Infine, la strategia di persuasione collettiva che punta dritta al “secondo pilastro” prova a sensibilizzare il nuovo Esecutivo “personalizzando” i risultati dell’indagine Censis, da cui emergerebbe un “maggior rancore degli elettori di 5 Stelle e Lega nei confronti della sanità”, considerata il “cantiere con cui gli italiani metteranno alla prova il passaggio dal rancore alla speranza del cambiamento”. Peccato (per loro) che il contratto del Governo del cambiamento afferma senza indugi che “È prioritario preservare l’attuale modello di gestione del servizio sanitario a finanziamento prevalentemente pubblico e tutelare il principio universalistico su cui si fonda la legge n. 833 del 1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale”, per cui la vera “prova di esame”non è affatto rappresentata dall’espansione del secondo pilastro, quanto invece dal rilancio del finanziamento pubblico, peraltro annunciato anche dal Premier Conte nel discorso per la fiducia al Senato.
Se così non fosse, il Governo del cambiamento, oltre ai propri “rancorosi elettori”, avrà tradito anche il contratto che oggi riguarda tutto l’intero popolo italiano.


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