Dal governo

7° Healthcare Summit de Il Sole24ore/ Cartabellotta (Gimbe): nella manovra fondi illusori, restano fuori contratti e superticket

di Barbara Gobbi e Rosanna Magnano

S
24 Esclusivo per Sanità24

Ci sono più luci che ombre nella stesura attuale della legge di Bilancio 2019. Secondo Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, la coperta dei finanziamenti «è talmente corta e i nodi al pettine talmente troppi che è molto difficile definire le priorità». Ma i 40 anni del Servizio sanitario nazionale, afferma nel corso del 7° Healthcare Summit de Il Sole 24 Ore, impongono comunque una riflessione finalizzata «a rilanciare equità e universalismo».

Anche quest’anno il livello delle risorse per la Sanità nei fatti è stazionario se non in arretramento. Quali conseguenze per la sostenibilità del Ssn?
Nel periodo 2010-2019, tra tagli e definanziamento, il SSN ha lasciato per strada circa € 37 miliardi e il fabbisogno sanitario nazionale (FSN) è aumentato dell’1% per anno, percentuale inferiore all’inflazione media annua (+ 1,18%). In altri termini, se l’ormai “consueto” miliardo in più per anno fornisce l’illusione di un minimo sostentamento, in realtà non mantiene neppure il potere d’acquisto. La Manovra porta in dote il miliardo già assegnato per il 2019 dalla precedente legislatura e prevede un incremento del fabbisogno nazionale standard di € 2 miliardi nel 2020 e di € 1,5 miliardi nel 2021, previa sottoscrizione con le Regioni di un nuovo Patto per la Salute. Per il resto, a fronte di un modesto impegno su liste di attesa e borse di studio per specializzandi e futuri medici di famiglia, rimangono fuori dalla Manovra indifferibili priorità per evitare il collasso del SSN: rinnovi contrattuali, sblocco del turnover del personale sanitario, “sdoganamento” dei nomenclatori tariffari dei nuovi LEA, oltre all’eliminazione del superticket.

Livelli essenziali di assistenza, personale, farmaci, superticket, tecnologie e infrastrutture: se il Fondo sanitario nazionale resterà fermo sulle cifre preventivate nel testo entrante della legge di Bilancio, come si potrà far fronte a tutte queste necessità?
La coperta è talmente corta e i nodi al pettine sono ormai troppi che è molto difficile definire le priorità. A chi diamo nel 2019 il miliardo di aumento? Sblocchiamo i nuovi LEA, il turnover del personale o rinnoviamo i contratti della dirigenza? Investiamo sui farmaci innovativi o eliminiamo il superticket? Quando la rilevanza di tutte le priorità è massima e le risorse insufficienti i rischi sono fondamentalmente due: il primo è che le scelte siano condizionate prevalentemente dal consenso politico, il secondo è uno “spezzatino”, che cerca di accontentare tutti, senza ottenere un adeguato ritorno in termini di salute del denaro investito in sanità.

Quale sarebbe il reale fabbisogno finanziario del Ssn?
Se per festeggiare degnamente i 40 anni del SSN volessimo rilanciarlo sotto il segno di equità e universalismo, i princìpi sui cui è stato disegnato nel 1978 per erogare in maniera omogena sul territorio nazionale i LEA, inclusi quelli socio-sanitari, fornire a tutti i cittadini l’accesso alle innovazioni, riallineare a standard europei numero e retribuzione dei professionisti sanitari e portare la spesa out-of-pocket al 15% come suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, il finanziamento pubblico annuale dovrebbe essere almeno di € 150 miliardi, ovvero € 2.500 pro-capite.

Il rapporto spesa sanitaria-Pil: quale evoluzione si prevede e quali le conseguenze sulla sostenibilità?
La Nota di Aggiornamento del DEF 2018 non lascia intravedere alcun rilancio della sanità pubblica a breve-medio termine. Infatti, rispetto al DEF 2018, aumenta solo il rapporto spesa sanitaria/PIL dello 0,1% per anno (6,5% nel 2019 e 6,4% nel 2020 e nel 2021). Peraltro, a fronte di azzardate previsioni di crescita del PIL (3,1% nel 2019, 3,5% nel 2020 e 3,1% nel 2021), l’aumento della spesa sanitaria viene contenuto allo 0,8% nel 2019, 1,9% nel 2020 e 2% nel 2021, certificando che la crescita della spesa sanitaria nel triennio 2019-2021 rimarrà ben al di sotto di quella stimata per il PIL nominale. Senza un’inversione del rapporto spesa sanitaria/PIL, incautamente annunciata dal Premier Conte in occasione del discorso per la fiducia, è evidente che il rilancio del SSN rimane un lontano miraggio e la crisi di sostenibilità rischia di acuirsi ulteriormente.

La spesa dei cittadini intanto aumenta: in che misura è attribuibile al consumismo sanitario e quanto invece ai bisogni insoddisfatti dall’assistenza pubblica?
Nel 2016 la spesa out-of-pocket ha raggiunto i 40 miliardi di euro, ma è bene frenare allarmismi, visto che in termini assoluti il suo incremento è identico (+18%) nel periodo pre-crisi (2000-2008) e in quello post-crisi (2009-2016). Peraltro, buona parte della spesa dei cittadini rappresenta solo un fenomeno consumistico e non fronteggia affatto le minori tutele pubbliche. Questo è dimostrato sia dal fatto che risulta più elevata nelle Regioni con reddito pro-capite più alto e migliore qualità dei servizi sanitari, sia perché il suo “spacchettamento” documenta che circa il 40-50% viene impiegato in beni e servizi sanitari il cui impatto sulla salute non è dimostrato (integratori, prodotti omeopatici), minimale (farmaci di fascia C, test diagnostici inappropriati) o rappresenta il frutto di scelte consumistiche (ticket per quota differenziale per il farmaco brand). Non dimentichiamo, infine, che lo Stato ha restituito ai cittadini, sotto forma di detrazioni IRPEF, oltre € 3,3 miliardi nel 2016.

Il secondo pilastro: maneggiare con cura? Con quali priorità?
L’enfasi (ingiustificata) sull’aumento della spesa out-of-pocket e il procurato allarme sulla rinuncia a prestazioni sanitarie e sull’indebitamento delle persone puntano dritti verso un’unica soluzione: favorire l’espansione di forme alternative di copertura sanitaria da parte del complesso ecosistema dei terzi paganti. In altre parole, per garantire la sostenibilità del SSN, si è progressivamente fatto largo un “pensiero unico” sull’inderogabile necessità del secondo pilastro senza preoccuparsi dei numerosi effetti collaterali: dalle derive consumistiche e di privatizzazione ad una iniqua redistribuzione di incentivi fiscali, dall’aumento della spesa sanitaria alla frammentazione dei PDTA. Per assegnare al secondo pilastro una funzione realmente di sostegno per il SSN è necessaria sia la revisione di un impianto normativo obsoleto, frammentato e incompleto, sia l’esclusione dai LEA di prestazioni dal basso valore. Per essere chiari, il secondo pilastro è giustificato solo se copre prestazioni integrative rispetto a quelle già incluse nei LEA. Se invece è diventato prevalentemente sostitutivo, perché incentivare fiscalmente i fondi sanitari invece di aumentare il finanziamento pubblico del SSN?

Cosa dire rispetto all’ipotesi di collegare l’accesso alle cure innovative a strumenti assicurativi?
È sicuramente una possibilità concreta per aumentare l’accesso all’innovazione, ma richiede tre presupposti. Innanzitutto, bisogna definire qual è il prezzo massimo che lo Stato è disponibile a pagare per l’innovazione, utilizzando parametri validati a livello internazionale (QALY, ICER); in secondo luogo, il rimborso pubblico deve essere basato sugli esiti utilizzando dati della real world evidence; infine, le compagnie assicurative devono elaborare proposte in grado sia di integrare il prezzo massimo rimborsato dal SSN, sia di coprire il rischio di incertezze sugli outcome.

Tra gli emendamenti alla legge di Bilancio si ripropone puntuale la tassa di scopo sul fumo per finanziare il fondo oncologici innovativi… idea da avallare?
Se lo Stato incassa imposte dal fumo, dall’alcool e dal gioco d’azzardo è sacrosanto reinvestirle in sanità. Ma sarebbe necessaria riflessione più ampia: in particolare, perché solo sui farmaci innovativi e non anche in efficaci campagne di prevenzione oncologica, incluse quelle antifumo? Peraltro, il consuntivo sul fondo per gli innovativi 2017 ha dimostrato che le Regioni, in parte per preoccupazioni finanziarie, in parte per problemi organizzativi, hanno speso solo il 52% del miliardo di euro complessivamente assegnato al fondo dei farmaci innovativi, non raggiungendo di fatto l’obiettivo di incentivare l’accesso all’innovazione.

Libertà prescrittiva e corsia preferenziale per i biosimilari: quali sono i giusti confini?
Nel pieno rispetto della sicurezza dei processi produttivi dei biosimilari e della corretta informazione al paziente, il medico oggi non può pretendere libertà professionale incondizionata, ma solo un’autonomia prescrittiva che tenga conto delle scelte individuali sulla sostenibilità del SSN, come peraltro affermato dall’art. 6 del Codice Deontologico: “il medico, in ogni ambito operativo, persegue l’uso ottimale delle risorse pubbliche e private”. In altre parole, se per motivazioni cliniche non è realistico che i biosimilari sostituiscano integralmente gli originator, è inaccettabile che mantengano quote di prescrizione residuali. Liberare risorse pubbliche per dare spazio alle innovazioni è un mandato etico che tutti i medici devono assolvere, nel pieno rispetto della libertà prescrittiva.

A suo avviso il Ssn è in grado di sostenere da solo la sfida della cronicità e della necessaria riorganizzazione delle cure territoriali?
In tutta sincerità temo di no, almeno nel breve termine, perché rispetto agli obiettivi del Piano nazionale delle Cronicità troppi ostacoli si intrecciano variamente nei differenti modelli regionali. Non esistono standard nazionali di qualità delle cure primarie, né nei sistemi di accreditamento regionale, ad eccezione della Regione Emilia Romagna; i modelli organizzativi delle cure primarie (UCCP, AFT) non sono ancora strutturati in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale; i servizi socio-sanitari sono estremamente frammentati, oltre che ampiamente sotto-finanziati; la telemedicina rimane fuori dai LEA; i PDTA sono ancora insufficienti, frammentati e di variabile qualità, oltre che costruiti più sulle esigenze di chi eroga i servizi sanitari che sui bisogni del paziente; le reti per patologia sono ancora a macchia di leopardo; l’approccio alla multimorbidità non è ancora adeguatamente condiviso tra differenti specialisti e setting di cura; il contributo delle professioni non mediche è ancora poco valorizzato, se non francamente ostacolato a vari livelli.

Al di là degli ottimi posizionamenti nelle classifiche internazionali, quali parametri considerare nella valutazione di un sistema sanitario di cui si voglia continuare a garantire l’universalismo?
Gli “ottimi posizionamenti” del nostro SSN nelle classifiche internazionali si riferiscono fondamentalmente a due classifiche. La prima è quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicata nel 2000 e basata su dati del 1997 che continua ad essere utilizzata per decantare un 2° posto che ha un mero valore storico. La seconda è quella di Bloomberg che, mettendo in relazione l’aspettativa di vita alla nascita con la spesa pro-capite sovrastima la qualità del nostro SSN (4° posto), sia perché la longevità dipende soprattutto da altre determinanti della salute, sia perché la riduzione della spesa sanitaria ci ha permesso di scalare progressivamente la classifica. Indubbiamente, il sistema più completo e continuamente aggiornato è quello dell’OCSE, che non elabora alcuna classifica, ma permette di identificare la posizione del nostro SSN rispetto agli altri paesi per 76 indicatori al fine di individuare le criticità e predisporre le azioni di miglioramento per allinearsi a standard internazionali.

Centralismo delle cure e spinte autonomistiche: cosa tenere “in house” e cosa assegnare in via prioritaria alle Regioni?
La governance Stato-Regioni in sanità è una scottante priorità politica sulla quale i vari esecutivi hanno sempre abdicato o hanno cercato soluzioni improbabili, come la già bocciata riforma costituzionale dell’art. 117. Oggi si sta diffondendo il contagioso virus del regionalismo differenziato: oltre a Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna che hanno già sottoscritto gli accordi preliminari con il Governo, tutte le altre, a parte Abruzzo e Molise, hanno già avviato l’iter ed è ragionevolmente certo che ulteriori autonomie accentueranno iniquità e diseguaglianze. La mobilità sanitaria, le diseguaglianze regionali, la “questione meridionale” in sanità, la ridefinizione dei criteri di riparto utilizzando la quota deprivazione (che finirebbe per assegnare più risorse alle Regioni che si sono distinte per una cattiva gestione) sono spesso al centro del dibattito, ma nessuno risponde ad una semplice domanda. Se lo Stato assegna le risorse e definisce i LEA e alle Regioni spetta pianificazione e organizzazione dei servizi sanitari, è possibile aumentare le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni per garantire l’uniforme erogazione dei LEA su tutto il territorio nazionale? La risposta non può che essere positiva, ma bisogna accettare che gli strumenti di monitoraggio (griglia LEA) e di miglioramento (Piani di rientro) sono ormai obsoleti e di documentata inefficacia.


© RIPRODUZIONE RISERVATA