Dal governo

Previdenza: il fenomeno delle baby pensioni e lo squilibrio di oggi tra pensionati e lavoratori attivi

di Claudio Testuzza

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24 Esclusivo per Sanità24

Si torna a parlare delle baby pensioni. Ci ha pensato l’attuale presidente dell’Inps, Tridico, in un libro da poco pubblicato ( "Il lavoro di oggi la pensione di domani"). Nel libro si evidenzia come quello delle baby pensioni sia stato il caso più eclatante di un privilegio pensionistico e si ricorda come nel 1973, nel periodo in cui governava il centrosinistra quando ancora ci si cullava nell'illusione di una crescita senza fine, una classe politica, non immune da tentazioni clientelari, arrivò a concedere alle dipendenti pubbliche con figli di andare in pensione dopo 14 anni, sei mesi e un giorno e ai dipendenti pubblici uomini di uscire dopo 19 anni sei mesi e un giorno di contributi.
Con il risultato di consentire a persone con poco più di 40 anni di accedere alla pensione.
Il presidente dell'Inps indica in circa 42 anni per le donne e 45 anni per gli uomini l'età media della decorrenza della baby pensione degli attuali beneficiari.
In Italia vi sono state circa 256 mila persone che hanno ricevuto la pensione in un'età giovane, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta. Sono costate 102 miliardi di euro alle casse dello Stato.
La cifra arriva fino a 130 miliardi di euro quando si considerano anche quelle pensioni che poi sono state eliminate perché chi le riceveva è morto. L'Istituto a tutt'oggi eroga 185 mila baby-pensioni per una spesa annuale di 2,9 miliardi, di cui 149 mila sono pagate a donne, che mediamente usufruiscono di questo trattamento da 36 anni, mentre per gli uomini la durata media del beneficio è di 35 anni. La media dei ratei mensili delle cosiddette baby pensioni non si presenta particolarmente elevata: 1.152 euro per le donne e 1.335 euro per gli uomini, per una media di 1.187 euro.
Ma è davvero tanto scandaloso questo passato previdenziale ?
Il nostro sistema si basa sul sistema contributivo a ripartizione. Questo vuol dire, in sostanza, che i lavoratori di oggi versano dei contributi che servono a pagare gli attuali assegni pensionistici erogati dall’Inps a chi ha smesso di lavorare. Il meccanismo alla base, di per sé, non sarebbe squilibrato perché si basa su una logica di interscambio. È logico però che per funzionare deve esserci equilibrio tra pensionati e lavoratori, ed è proprio qui che arrivano i problemi di oggi e il non scandalosissimo passato. Nel 1975 esisteva un rapporto di 3,5 occupati rispetto ad un pensionato, e il sistema, prevedendo una contribuzione intorno al 30 % della retribuzione, consentiva un regolare flusso per gli assegni pensionistici. Attualmente in Italia ci sono più pensionati che lavoratori. A livello nazionale il numero delle pensioni erogate agli italiani (pari a 22 milioni e 759 mila assegni) ha superato la platea costituita dai lavoratori autonomi e dai dipendenti occupati nelle fabbriche, negli uffici e nei negozi (22 milioni 554 mila addetti). I dati, che si riferiscono al 1° gennaio 2022, fanno luce su una situazione squilibrata soprattutto nel Mezzogiorno, anche se, in linea di massima, a livello nazionale si registra una controtendenza solo in alcune regioni.
Una vera riforma e un piano a lungo termine potranno essere, quindi, decise solo attraverso l’aumento del tasso di occupazione, la promozione della parità di genere sul posto di lavoro, la lotta alla precarietà e il rafforzamento del sistema di contribuzione previdenziale. Obiettivi raggiungibili solo con un dialogo aperto tra il Governo, i sindacati ed i cittadini, che punti alla costruzione di un sistema previdenziale equo ed efficace.


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