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Caso Cospito, per il Comitato nazionale di bioetica c'è il diritto a rifiutare i trattamenti e lo sciopero della fame è espressione di autodeterminazione della persona. I 10 punti

di Radiocor Plus

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Il Comitato nazionale di Bioetica (Cnb), interpellato il 6 febbraio scorso dal ministero della Giustizia, ha espresso all'unanimità un parere in dieci punti sui quattro quesiti formulati dal dicastero attorno al rifiuto e alla rinuncia di trattamenti sanitari da parte di una persona detenuta, alla legge n. 219/2017 ("Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento") e alla sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale su fine vita e suicidio assistito. Quesiti formulati in merito al "caso Cospito", relativo alla scelta del detenuto di proseguire con lo sciopero della fame e di rifiutare eventuali trattamenti di mantenimento in vita. Il Cnb sottolinea di non poter di solito esprimersi su singoli casi ma che il regolamento prevede che ciò possa avvenire "in ipotesi eccezionali in cui ricorrano motivi di interesse generale e comunque nel rispetto della funzione giurisdizionale spettante alla Magistratura". Tra le "risposte" dei saggi del Cnb, "spicca la condivisione del rifiuto di adottare misure coercitive contro la volontà attuale della persona". E tutti inoltre "ritengono che non vi siano motivi giuridicamente e bioeticamente fondati che consentano la non applicazione della legge 219/2017 nei confronti della persona detenuta, che, in via generale, può rifiutare i trattamenti sanitari anche mediante le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat)". La maggioranza dei componenti del Cnb (19 membri), "ha ritenuto che, nel caso di imminente pericolo di vita, quando non si è in grado di accertare la volontà attuale del detenuto, il medico non è esonerato dal porre in essere tutti quegli interventi atti a salvargli la vita. La stessa Corte Europea dei Diritti Umani - rilevano dal Comitato - ha sostenuto di recente che 'né le autorità penitenziarie, né i medici potranno limitarsi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna'"."Occorre innanzitutto ribadire - prosegue il Cnb nei suoi 10 punti, ricordando quanto chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 26 del 1999 - alcuni punti fermi sulla capacità giuridica generale della persona in stato di detenzione per quanto concerne il compimento degli atti di stretta rilevanza personale. I detenuti sono ovviamente persone capaci di intendere e di volere e possono, quindi, autodeterminarsi in tale sfera". Di conseguenza, "qualsiasi detenuto può non solo esprimere assenso o dissenso ai trattamenti diagnostici o sanitari che lo riguardano, ma può anche, in previsione di una futura eventuale incapacità di autodeterminarsi, efficacemente redigere le Dat, ai sensi dell’art. 4 della legge 219/2017. Sotto questo profilo può affermarsi, in via generale - precisano gli esperti - che in regime di detenzione carceraria non vi siano limiti e peculiarità, dal punto di vista etico, nell’applicazione della Legge 219/2017". Quanto al significato dello sciopero della fame e nel contesto del diritto della persona a manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21 della Costituzione), questo è "espressione di autodeterminazione della persona: forma di testimonianza e protesta non violenta a difesa di ideali, diritti, valori e libertà", precisano i saggi. Per cui "rappresenta dunque un modo, sia pure estremo, di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su situazioni ritenute ingiuste o su diritti che si desidera rivendicare. Un tale comportamento esprime quindi una libertà morale del soggetto", che "va sempre pienamente rispettata, in particolare quando provenga da un soggetto che, fortemente limitato dal regime di detenzione cui è sottoposto, individui nello sciopero della fame, in mancanza di altri mezzi, una forma estrema di comunicazione, mettendo anche a rischio la propria vita".


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