Europa e mondo
Ricerca, l’Italia è ancora nella top 10. Ma perde talenti
di Alberto Magnani
Nel 2013 l'Italia ha investito l'1,26% del Pil in Ricerca&Sviluppo, ben al di sotto della media Ue (2%) e degli obiettivi di spesa fissati dall'Europa per il 2020 (3%). Risultato? La ricerca italiana è settima al mondo per impatto su scala mondiale, sopra a Paesi che hanno investito in proporzione anche più del doppio come Danimarca (3,06%, 14esima) e Svezia (3,30%, 11esima).
Lo rivela il cosiddetto H Index, l'indicatore che misura la produttività della ricerca con fattori come numero di pubblicazioni e citazioni ricevute: secondo la classifica della portale di indicatori SCImago Journal & Country Rank, il nostro paese registra un valore di 713 che la conserva nella top 10 mondiale davanti a “concorrenti” come Australia (644) e le stesse Svezia e Danimarca (614 e 518). Insomma: pochi fondi e risultati brillanti? L'equazione non è così semplice. E presenta più rischi che buoni segnali.
I rischi del sotto-investimento
Diversi criticano lo stesso H Index, contestato per alcuni limiti come l'incapacità di cogliere le differenze tra settori disciplinari o la parzialità delle classifiche che se ne possono ricavare. Ma quello che emerge, in ogni caso, è che la ricerca italiana riesca a mantenere standard di qualità e quantità elevati a fronte di finanziamenti ridotti. Un dato positivo a prima vista, ma allarmante in prospettiva se si considerano i rischi sulla tenuta stessa del sistema e la sua – già debole – capacità di influire sull'ecosistema economico. In primo luogo, la carenza di investimenti è una delle molle all'ormai celebre “fuga” di italiani all'estero. Proprio negli ultimi giorni una rielaborazione della Camera di Commercio di Monza e Brianza ha stimato il trasferimento fuori dall'Italia di 45mila under 40, una cifra pari a un aumento del 34,3% in più nel giro di due anni e corrispondente alla metà dei 90mila registrati dall'intera indagine. (Italiani all'estero: +34,3%. La metà ha meno di 40 anni)
Non si parla sempre di addii o trasferimenti per necessità, ma la quota di “foreign professionals” inclusa nel fenomeno testimonia che sono soprattutto le risorse qualificate ad abbandonare il Paese. Ricercatori in testa: «E questo è un disastro. Significa che formiamo bene gli studenti grazie a una scuola secondaria molto forte e a università di eccellenza, ma il sistema non è in grado di investire su professionalità con un certo grado di qualifiche. La ricerca di qualità viene fatta, sì, ma spesso all'estero» evidenzia Fabio Sdogati, ordinario di Economia internazionale al Politecnico di Milano.
In Italia 5 ricercatori ogni 1000 persone impiegate
Una conferma arriva dal rapporto tra spesa in R&S rispetto al Pil e numero di ricercatori ogni 1000 occupati. Come mostra bene il grafico dell'Ocse che riportiamo in allegato, più crescono gli investimenti sulla ricerca e più aumentano i ricercatori attivi nei singoli paesi. In Italia, dove si destina alla R&S poco più dell'1% del Pil, si contano circa 5 ricercatori ogni 1000 persone impiegate. In Francia e Germania, dove gli investimenti sono superiori al 2%, il rapporto sale a 8,5 su 1000, fino ai 13 su 1000 della Svezia e i 14 su 1000 della Danimarca (in entrambi i paesi, come vista sopra, la spesa in ricerca viaggia sul 3%). Anche senza confronti internazionali, basta la foto scattata dall'ultima sessione di finanziamenti dell'Erc (European Research Council): gli italiani si sono aggiudicati 31 grant, il secondo risultato in assoluto, ma quasi la metà ha scelto la via dell'estero.
Quanto alle fonti di investimento, sempre secondo analisi Ocse, l'1,26% complessivo dell'Italia è diviso principalmente tra lo 0,68% messo sul piatto dalle aziende (business sector), lo 0,35% degli stessi istituti di formazione (higher education sector) e lo 0,19% di origine governativa (government sector). «Scarsi finanziamenti significano scarsa remunerazione e, quindi, un incentivo ad andare altrove. Il problema è che non si riescono ad assorbire giovani altamente qualificati perché non c'è la volontà di pagarli quanto meriterebbero» dice Sdogati.
L'anello mancante tra ricerca e produzione
Il secondo elemento di preoccupazione sta in un “anello mancante” in Italia: il rapporto tra ricerca e produzione, cioè la spinta che la prima potrebbe dare alla seconda. Il ragionamento è lineare, in apparenza: se la ricerca viaggia su buoni livelli, non dovrebbero esserci ritorni sulla produttività generale? «Prima di tutto è bene sottolineare che la “produttività” è un fatto aziendale – fa notare Sdogati -. E comunque non è detto che ci debba essere un rapporto diretto tra ricerca e produzione, perché negli indicatori che si usano per valutare la prima si parla di citazioni da qualsiasi disciplina».
I problemi tornano a essere la scarsità di risorse per la ricerca e una retribuzione adeguata per chi la fa. Un report a cura del gruppo professionale The European House-Ambrosetti ha messo in luce una correlazione tra i grossi investimenti in R&S e le buone performance produttive di tre industrie ad alta densità di innovazione come biotech, biomedicale e farmacia. Solo in Italia aziende del biotech investono il 30% del fatturato in ricerca (1,5 miliardi nel 2015), contro l'1% medio degli altri settori. Influisce la natura del business, come è ovvio, ma il risultato è quello di un settore con una certa robustezza anti-ciclica: la crescita dell'occupazione è strutturale e ogni nuovo lavoratore ne genera 5 nell'indotto, contro gli 1,6 dei settori tradizionali. E l'80% del personale che si dedica alla ricerca è laureato o in possesso di un titolo di dottorato. «In tutto questo, noi abbiamo ancora difficoltà a far entrare i laureati migliori e sostenere così la ricerca – ricorda Sdogati - Di fronte a un'opportunità come questa, invece, bisognerebbe fare un'operazione di spinta per trattenerli qui».
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