Europa e mondo

Covid: comunicare la scienza al grande pubblico senza contraddizioni

di Alessandra Ferretti

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24 Esclusivo per Sanità24

Una volta Winston Churchill disse: "Non bisogna mai sprecare una buona crisi". Le parole dello statista risuonano più che mai realistiche per noi che oggi ci apprestiamo ad affrontare un quesito molto complesso: come comunicare la scienza al grande pubblico dopo l'esperienza Covid-19?
La crisi sanitaria si è rivelata una cartina di tornasole per tanti aspetti, ma soprattutto ha rilanciato con prepotenza il valore della comunicazione in sanità, il bisogno di una sua fruibilità e i valori su cui questa si fonda, che sono essenzialmente quelli della responsabilità (nel senso di prevedere l'impatto di cosa e come comunichiamo) e dell'umiltà (come gli scienziati devono avere grandissimo rispetto dei dati, così i "divulgatori scientifici" devono averlo sia per i dati sia per le parole).

Le rappresentazioni della malattia
Nel corso dei secoli possiamo identificare tre rappresentazioni della malattia che ne hanno modificato profondamente la percezione collettiva.
Primo, le grandi epidemie come peste, lebbra, sifilide rinviavano ad una concezione della malattia come fenomeno collettivo, nella quale il contagio era evidente e la patologia era iscritta nel corpo.
Col XIX secolo e i progressi legati a una nuova concezione dell'igiene, la nuova malattia fu la tubercolosi, non più un "rischio collettivo", perché al centro dell'attenzione c'era l'individuo tubercolotico, una categoria sociale con aspettative, restrizioni e privilegi.
E poi, ecco il cancro, una malattia (solo apparentemente) "contemporanea" che non turba più tutti quelli che circondano il malato, ma solo lui e i suoi familiari, diventando così esperienza del tutto individuale.
Fuori da questa traiettoria di vissuto che da collettivo era diventato individuale, si colloca l'apparizione dell'Aids a inizio anni '80. La Sindrome da Immunodeficienza Acquisita era una nuova malattia infettiva, di carattere virale, trasmissibile e sviluppabile rapidamente. Una sorta di "prodromo" all'arrivo del virus SARS-CoV-2, col quale nel 2020 siamo tornati al "punto di partenza" e in cui l'attenzione globale è stata pienamente catalizzata dal suo essere "fenomeno collettivo".
Paragonato alle altre pandemie della storia, il virus Sars-CoV-2 ha sviluppato dinamiche a loro sostanzialmente similari. Ciò che è cambiato è il contesto in cui esse agiscono, perché di fatto questa è la prima emergenza sanitaria in epoca "globale".

Modello "biologico" e "sociale" della malattia
La diffusione del virus in "tempo reale" ha compresso il tempo a disposizione delle autorità per reagire all'evento e per attuare provvedimenti orientati al contenimento del contagio. Tra questi provvedimenti, c'era anche la necessità di fornire ai cittadini un'informazione chiara ed esauriente indirizzata ad indurre comportamenti che riducessero il livello di rischio. In altre parole, a produrre una sinergia tra il modello "biologico" della malattia (per cui dalla comprensione e dal controllo della malattia riceviamo il migliore indirizzo per combatterla) e il suo modello "sociale" (in cui la malattia di sviluppa in circostanze sociali e di conseguenza controllando queste ultime otteniamo miglioramenti in sanità).
Quando a partire dal 1979 tumori e infezioni di presentarono per la prima volta in California e a New York, la diminuzione delle morti e delle infezioni da Hiv è stata prodotta dalla sinergia tra terapie antivirali e impegno di salute pubblica volto a diffondere la consapevolezza per l'Hiv e i comportamenti a rischio.
La stessa sinergia tra salute pubblica e cura della salute giocò la propria parte quando a fine anni '70 a Napoli si verificarono 80 decessi pediatrici per bronchiolite epidemica da virus respiratorio sinciziale. In quel caso si intervenne sia su problematiche sociali di degrado sia con il trattamento clinico della malattia.
Nel caso del Sars-CoV-2 avevamo la stessa necessità, ma in un contesto molto più complesso di progresso tecnologico, velocità di propagazione delle notizie in tempo reale e amplissima molteplicità di canali e di fonti. Qui sarebbe stato necessario un modello chiaro di comunicazione, che avesse alle spalle una preparazione a livello di comunicazione di crisi.

I modelli di comunicazione
Guardiamo con quale modello siamo arrivati a comunicare il Sara-CoV-2. Nel tempo si sono sviluppati essenzialmente tre modelli di comunicazione. Il primo è il "Deficit Model ", secondo cui esisterebbe un gap cognitivo che il divulgatore avrebbe il compito di colmare con un travaso delle conoscenze top-down. Per dirla con lo science-writer degli anni Trenta, William Laurence, i divulgatori scientifici sarebbero come i "discendenti di Prometeo, che prendono il fuoco dall'Olimpo della scienza, dai laboratori e dalle Università e lo portano giù agli uomini". Tuttavia, questo modello non ha funzionato molto. In un documento del 2000 la Camera dei Lord britannica ne ha riconosciuto i limiti, indicando come paradossalmente tale approccio avesse addirittura esacerbato l'avversione per la scienza.

Il secondo è il "Dialogue Model", dove i destinatari della comunicazione non sono contenitori vuoti da riempire, ma soggetti dialoganti con i quali negoziare in nome di una declinazione sociale della scienza attenta alla percezione pubblica. Per fare un esempio, chi vive in un contesto di rischio ambientale sarebbe più disposto ad accogliere conoscenze scientifiche per assumere poi decisioni consapevoli.

Il terzo modello è quello del "Participatory (o Public Engagement) Model", dove scienziati e pubblico lavorano insieme in una modalità in cui i primi coinvolgerebbero i secondi in maniera collaborativa nel processo di ricerca.
In realtà, la massmediologia contemporanea, riferendosi comunque ai mezzi di comunicazione di massa, parla addirittura di "public understanding of science", altro modello nel quale l'accento non è più sul comunicatore, quanto sul grado di comprensibilità del pubblico.

In ogni caso, i tre modelli teorici di cui sopra non è detto corrispondano al modo di essere né alla realtà, soprattutto dal punto di vista dei fruitori. Ancora un a volta, nel mezzo fa sentire fortemente la sua impronta il Sars-CoV-2. Che ha sparigliato le carte e ha messo sul tavolo con tutta la sua potenza l'importanza fondamentale della comunicazione in un settore, quello sanitario, che, in assenza di un modello chiaro, ha rischiato (e in parte c'è pure riuscito) di farci fare dieci passi indietro.
Quella della corretta comunicazione non è un'operazione fine a se stessa. Al contrario, essa gioca un ruolo decisivo per il successo dell'operazione più importante: quella di contenimento del Covid e di salvaguardia della vita. La proliferazione di notizie spesso contraddittorie crea infatti uno stato di disorientamento che innesca a sua volta comportamenti confusi e difficilmente governabili. E ciò moltiplica le occasioni potenziali di contagio.

Gli strumenti deontologici
Non è un caso che, tra gli strumenti deontologici del giornalista, la Carta di Perugia su "Informazione e Malattia", nel 1995, venne redatta e sottoscritta da Federazione Regionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri dell'Umbria, Consiglio Regionale Ordine dei Giornalisti dell'Umbria e Ordine Regionale degli Psicologi dell'Umbria. Una vera e propria alleanza "medici-giornalisti", scritta nero su bianco, che in quanto tale potrebbe non restare solo un'illusione, soprattutto in tempi di crisi sanitaria. Il documento è stato poi successivamente inglobato dal "Testo unico dei doveri del giornalista".
È invece del dicembre 2020 l'approvazione del "Manifesto di Piacenza - Carta deontologica del giornalismo scientifico" tra i "doveri del giornalista". Le indicazioni in esso contenute, elaborate dall'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (UGIS) con la collaborazione della Fondazione Ordine dei Giornalisti dell'Emilia-Romagna, non sono rivolte soltanto ai giornalisti scientifici, tuttavia indicano, non a caso, di "sostenere nei media il ruolo del giornalista scientifico come mediatore preparato nel garantire l'informazione".

I rischi dell'infodemia
Esattamente come un'epidemia, l'infodemia può attecchire dove le fondamenta sono deboli ovvero dove si registrano tassi elevati di fragilità culturale e dove i canali ufficiali di trasmissione delle comunicazioni faticano ad essere attrattivi per i cittadini. E non è un caso se una delle tesi portanti della Scuola di comunicazione di Palo Alto e di Paul Watzlawick, suo eminente esponente, recita come "non comunicare vuol dire fare una cattiva comunicazione".
Oggi ci troviamo nell'era "post accademica" della scienza (John Ziman), in cui la comunicazione pubblica non è più un'opzione per lo scienziato, ma una sua necessità professionale.
Le informazioni scientifiche per il grande pubblico, soprattutto dopo l'esperienza del Covid-19, identificano un bisogno sociale diffuso, oltre che un'esigenza fondamentale di democrazia. E questa va comunicata in modo responsabile e umile – per dirla come abbiamo scritto all'inizio.
Quando si presenta una crisi, diventa indispensabile gestire non solo la crisi in sé, ma anche la comunicazione di crisi, la quale non può anticipare le azioni, ma può accompagnarle, aiutando così a plasmare le percezioni relative alla crisi stessa. Forse in Italia questi due aspetti non sono stati del tutto soddisfatti, ma si può sempre migliorare.


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