Imprese e mercato

Ricerca&Biotech: micro-eccellenze a caccia di incubatori

di Rosanna Magnano

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«Intensificare la contaminazione di idee fra aziende, piccole startup, laboratori pubblici e privati per dare corpo alle innovazioni biofarmaceutiche che nascono nelle piccole realtà di ricerca italiane, quelle emerging biopharma che hanno nella loro pipeline prodotti innovativi interessanti, ma a cui mancano le risorse, sia finanziarie che di know-how, per lanciarli sul mercato». È questo l'obiettivo di un recente incontro di brainstorming promosso da Iqvia, provider di dati, tecnologie innovative, servizi commerciali e di ricerca clinica per l’industria farmaceutica. «L’industria farmaceutica del nostro Paese è ora prima in Europa, sia come produzione che come esportazione di farmaci, prima ancora della Germania. Questo è motivo di grande orgoglio e di forte impulso per la nostra economia», dichiara Sergio Liberatore, amministratore delegato di Iqvia Italia. «Con questa iniziativa, Iqvia mette in campo la propria competenza nella due diligence, negli studi clinici, nel regolatorio, nel market access coinvolgendo gli incubatori e il venture capital».

Farmaci orfani e terapie avanzate, genomica, nanobiotecnologie, teranostica, machine learning, modellizzazioni 3D, smart pills. «Spesso i prodotti farmaceutici più innovativi - conclude Liberatore - vengono da piccoli laboratori e startup, in molti casi poi acquistate e incubate da Big Pharma. La ricerca sta rendendo disponibili terapie sempre più precise ed efficaci, diversi farmaci sono in grado di guarire malattie fino a poco tempo fa incurabili, altri ne bloccano la progressione o ne prevengono le complicanze, permettendo ai pazienti di vivere di più e meglio. Il tema principale per questi nuovi prodotti salvavita sarà la sostenibilità dei prezzi. Comunque, è solo investendo nello sviluppo di prodotti innovativi che l’Italia potrà continuare a mantenere il suo primato».

Mini realtà focalizzate sull'innovazione
I farmaci biotech (dati Assobiotec) hanno già curato più di 350 milioni di pazienti, tra cui 20-30 milioni di malati rari. Sul mercato italiano sono 233, di cui 21 destinati a patologie arare. E la ricerca made in Italy vanta grandi eccellenze. Il 50% delle sperimentazioni cliniche globali è sui biofarmaci e il 30% di queste si svolge in Italia. Dove sono localizzate
295 imprese in area salute attive in tutte le fasi del processo terapeutico. Le imprese
dedicate alla R&S biotech, che impegnano il 75% o più dei propri costi totali di ricerca in
attività biotech, sono 183, di cui 161 a capitale italiano. Le regioni più vocate: Lombardia, Lazio, Emilia Romagna e Piemonte. «Ma di queste imprese - spiega il presidente di Assobiotec-Federchimica, Riccardo Palmisano - solo il 20 % è di grandi dimensioni, ovvero con più di 250 dipendenti. Il 69% ha invece dimensioni micro, con un numero di addetti compreso tra 1 e nove. Ma il livello è molto alto». Basti pensare che tre degli otto farmaci biotech approvati nell'Ue provengono dalla ricerca italiana.

Ricercatori italiani al top ma pochi investimenti
«Questi numeri - continua Palmisano - mostrano una realtà nazionale estremamente competitiva, significativamente cresciuta negli ultimi anni, e dimostrano ancora la capacità di superare la ciclicità tipica di altri settori industriali. Il risultato di un'eccellenza riconosciuta della ricerca italiana e della nostra capacità di trasformare l'innovazione in prodotti di valore». L'Italia è quindi potenzialmente un grande vivaio: il nostro Paese è primo per numero di pubblicazioni per ricercatore, per numero di citazioni e per numero di pubblicazioni sulle malattie rare. Ma le ombre sono troppe e rischiano di tarpare le ali di un sistema che avrebbe grandi potenzialità di sviluppo. L'Italia ha infatti una percentuale di ricercatori full time sul totale degli addetti (4,6%) decisamente più bassa rispetto ad altri partner Ue come Francia (9,1%), Uk (8,5%) e Germania (8,5%). E nel 2017 l'Italia non è riuscita a portare a casa neanche un progetto finanziato dallo European Research Council. «Il Technology Transfer in Italia - continua Palmisano - resta un problema». Non a caso il numero di domande di brevetto registrate allo European patent office è piuttosto basso: nel 2016 sono state 4.166 a fronte delle oltre 25mila presentate dalla Germania o delle 10.500 della Francia. Il totale degli investimenti in ricerca è tuttora carente: 22 miliardi di euro, pari all'1,3% del Pil (il 55% dei quali originato dalle imprese, il 29% dalle Università; il 13% dalle istituzioni pubbliche e il 3% dal privato no profit). E il nostro Paese è quasi ultimo nell'Ue anche per investimenti venture capital.

Gap che andrebbero colmati. E tra le priorità indicate da Assobiotec: una strategia nazionale di lungo termine per la ricerca e l'innovazione, un'agenzia nazionale della ricerca che coordini attività e finanziamenti e l'implementazione di un Centro d'eccellenza per il Technology Transfer .

Una cura di venture capital
A dare gambe alle idee sono ovviamente i denari. Ma nonostante il biotech sia il secondo comparto in Italia per numero di investimenti in imprese high tech, il numero di operazioni di venture capital e l’ammontare complessivo degli investimenti rimangono lontani da quelli delle principali economie europee. «L’apporto del venture capital - spiega Claudio Rumazza, Senior partner Innogest Capital - può essere vitale per permettere ad una start up di passare dalla fase di progetto di ricerca a una vera società di successo. Il fondo di venture capital non si occupa soltanto dell’aspetto finanziario, iniettando i capitali necessari per realizzare il piano di sviluppo, ma aiuta la start up anche a focalizzarsi a livello operativo». Il fondo diventa solitamente partner per un periodo di circa dieci anni. Al termine di questo periodo la start up è pronta per essere venduta con un’operazione di merger&acquisition oppure sul mercato con un'Ipo.

Cosa rende appetibile una start up? «Nel nostro caso cerchiamo aziende nelle prime fasi del ciclo di vita - continua Rumazza - che abbiano un team forte, competente e multidisciplinare e, soprattutto, aziende con un prodotto o una pipeline di prodotti fortemente innovativi che rispondano ad una vera esigenza clinica o terapeutica. Prodotti che possano arrivare in pochi anni ad avere un impatto importante per i pazienti. Purtroppo, l’Italia è ancora molto indietro su questo tipo di investimento. I fondi di venture capital negli Usa hanno investito 15,1 miliardi di dollari in operazioni nel settore delle scienze della vita nel 2017, contro 3,2 miliardi in Europa. Le start up italiane del settore life science hanno ricevuto investimenti per 142 milioni di euro negli ultimi 12 mesi. È curioso che, malgrado l’eccellenza degli scienziati, l’Italia sia il fanalino di coda. In Spagna, per esempio, gli investimenti dei venture capital sono cinque volte tanto».

Piccoli team in cerca di alleanze
Il potenziale della ricerca biotecnologica italiana è in ogni caso di grande rilievo. «Il 90% di questa ricerca - sottolinea Fabrizio Landi, presidente dell’incubatore Tuscany Life Sciences -è finanziata in Italia dall’industria farmaceutica. Il settore pubblico purtroppo dedica poche risorse alla ricerca nel nostro Paese, anche se le istituzioni scientifiche e universitarie pubbliche hanno ricercatori eccellenti. Questi ricercatori raramente, a differenza di altri paesi, arrivano a creare delle startup. Pertanto è di fondamentale importanza puntare sulle partnership pubblico-privato riunendo risorse e competenze». I

La cooperazione di piccoli team integrati porta infatti all’eccellenza. «Da questa integrazione - conclude Landi - possono nascere importanti stimoli per gli investimenti. E in questo possono essere molto importanti gli incubatori che accelerano il processo di creazione di nuove imprese fornendo loro una vasta gamma di servizi di supporto integrati che includono gli spazi fisici. L’erogazione di tali servizi e il contenimento delle spese derivanti dalla condivisione dei costi e dalla realizzazione di economie di scala, fanno sì che l’incubatore d’impresa migliori in modo significativo la sopravvivenza e le prospettive di crescita di nuove start up. In realtà, ricordiamoci che il venture capital in Italia ha a disposizione più soldi che opportunità di business».


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