Lavoro e professione

Una riforma per ripartire dai diritti degli assistiti

di Ettore Jorio (Università della Calabria)

Che la sanità debba essere riformata strutturalmente non vi è dubbio alcuno. Che ciò debba essere fatto organicamente è un dovere ineludibile. Di conseguenza, ogni azione isolata, diretta a stravolgere gli attuali assetti, costituisce un elemento di pericolo per l'assistenza acquisita.

Vanno, pertanto, banditi gli interventi effettuati per segmenti, tutti protesi a fornire l'idea del rinnovamento teorico a prescindere dalla loro reale utilità pubblica. Fatti cosi valgono poco e mettono a rischio l'unitarietà e la globalità dell'intervento, che costituiscono il piatto forte di una organizzazione sistemica, nata nel 1978, che si difende ancora bene, fatta eccezione per le negatività assistenziali che penalizzano i cittadini del Mezzogiorno, esteso a Lazio e Abruzzo.

Dunque, il primo dovere del legislatore è quello di riformare strutturalmente il Ssn e, nelle more, di riordinare ciò che non va senza traumi, ma soprattutto senza violare i migliori principi fondanti dell'ordinamento salutare, ancorati al rapporto fiduciario che lega i cittadini con i “medici di famiglia”, ma anche con le farmacie.

A ben vedere, occorre intervenire con una riforma strutturale del sistema della Salute, funzionale a renderlo sostenibile alle attuali condizioni di godimento universale (magari con l'individuazione al ribasso dell'indigente, cui viene riconosciuto tutto gratuitamente, nel senso di erogare prestazione a pagamento per i più ricchi), minato esclusivamente dalle anomalie gestionali che affliggono il suo ordinario funzionamento e da qualche causa ostativa, ben individuabile, che deve essere prontamente rimossa legislativamente.

Un obiettivo non facile da conseguire, attese anche le diverse condizioni di “vivibilità” dei Lea che rendono inaccettabili le prestazioni rese dalla gran parte dei cittadini residenti nelle regioni meridionali, offesi da una gestione spesso vergognosa, fatta di soprusi alla meritocrazia, di una politica che l'ha sfruttata a fini esclusivamente elettoralistici, di una burocrazia connivente e, spesso, avvezza all'affarismo, di un uso del danaro pubblico che a definirlo distorto si è generosi nei confronti degli usuari istituzionali, di Lea che non sono tali e di una rete dei controlli esercitata frequentemente con i limiti tipici delle filiere sudamericane, ove quasi tutto si rende impunemente possibile.

A fronte di tutto questo vi è la necessità di salvaguardare i cardini dell'attuale assistenza di primo livello che, in assenza di una assistenza territoriale che meriti di essere definita tale, ha assicurato gli attuali standard, certamente da rivedere al rialzo solo che si voglia garantire un più apprezzato livello di tutela della salute in senso lato.

Al riguardo, il governo Renzi si sta comportando come i suoi predecessori, pur avendo i numeri e la capacità di volare molto più in alto. Agisce (meglio, tenta di farlo) per compartimenti stagni e, quindi, in modo disorganico e disordinato, rischiando di buttare via il bambino con l'acqua sporca. Il tutto per soddisfare, forse, gli interessi “corporativi” e categoriali di cui sono una diretta emanazione i ministri proponenti e chiaramente sostenitori dei provvedimenti “in circolazione”.

Vengono così fuori, nella trascuratezza dei diritti sociali:

- il Ddl concorrenza, finito all'esame del Parlamento come legge collegata al Def 2015, attraverso il quale si vuole, incidentalmente, liberalizzare la farmacia, disconoscendo le tutele insite nel vigente regime concessorio, e introdurre le società di capitali nella loro acquisizione illimitata. Ciò allo scopo, sempre meno recondito, di rendere libera - tra un sgambetto d'aula e un altro - la somministrazione dei farmaci di fascia C a tutto vantaggio delle multinazionali della produzione del farmaco e della sua distribuzione all'ingrosso e della Gdo, molto vicini ai promotori del provvedimento;

- il tentativo di mettere in discussione l'attuale rapporto convenzionale con i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta, con il rischio di violare l'ineludibile principio della libera scelta dei cittadini di individuare il prestatore professionale cui affidare la propria salute e quella dei propri figli. Supponendo con ciò, erroneamente, di sostituirlo con l'opzione obbligatoria di dovere rintracciare in una struttura fissa il “servizio” sostitutivo, e dunque spersonalizzato, ancorché di maggiore durata giornaliera.

Due iniziative che servono solo a danneggiare l'attuale assetto assistenziale di cui si fa garante il sistema delle farmacie negli oltre 8.000 comuni italiani, dei quali la maggior parte al di sotto dei 3 mila abitanti, e - per altri versi - a non risolvere i limiti assistenziali che l'attuale filiera dei “medici di famiglia” presenta.

Due sistemi da rivedere nel senso di (ri)attribuire loro ruoli rinnovati - soprattutto collaborativi - (magari) a saldo zero, strumentali a rendere più strette e produttive le maglie della rete assistenziale del territorio. Una materia da riscrivere senza tuttavia snaturare il rapporto fiduciario medico-assistito che ha rappresentato, sino ad oggi, l'elemento sostitutivo di un'assistenza territoriale organica che latita ovunque. Un rapporto che, così come (neo)individuato, si snaturerebbe a tal punto da divenire un'altra cosa, meglio la cattiva imitazione di ciò che era, dal momento che quel “contratto” - che legava l'assistito a quel professionista anche perché con lo studio sottocasa, ma certamente fondato sull'intuitu personae - avrà necessità di essere rivisto a causa della sensibile mutazione delle condizioni determinanti la originaria scelta.

Un caos indefinito per gli uni (assistiti) e gli altri (medici), questi ultimi alla “ricerca di un autore” più saggio e consapevole per l'individuare meglio il loro ruolo. Un ruolo certamente da rivedere, nel senso di farlo divenire strumento interdittivo all'eccessiva domanda di ricovero, sulla quale i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta dovranno recitare, comunque, un qualche mea culpa. Snaturarne il loro compito, attraverso la spersonalizzazione dell'offerta, renderebbe la situazione più perniciosa di quella che è oggi. Determinerebbe una pesante ricaduta sugli ignari cittadini - sulla cui pelle si decide soventemente con troppa faciloneria - derivante dallo smarrimento dell'utenza, abituata ad avere una entità professionale fissa: il medico fiduciario di famiglia, cui fare sempre e comunque riferimento, tanto da sopportarne, di tanto in tanto, qualche assenza o trascuratezza di troppo.


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