Lavoro e professione

Alla ricerca dell’appropriatezza (s)perduta

di Nino Cartabellotta (presidente Fondazione Gimbe)

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24 Esclusivo per Sanità24

Il concetto di appropriatezza in sanità è talmente semplice, quanto incomprensibile se a spiegarlo sono politici e medici l’un contro l’altro armati, come recentemente accaduto nei salotti televisivi trasformati per l’occasione in campi di battaglia. Volendo semplificare al massimo, un intervento sanitario (un farmaco, un test diagnostico, una visita specialistica, un intervento chirurgico, un ricovero, etc.) è appropriato quando i potenziali benefici per il paziente superano i possibili rischi. L’appropriatezza professionale identifica la capacità del medico di prescrivere in maniera appropriata (appropriatezza prescrittiva), mentre quella organizzativa è la capacità dell’organizzazione sanitaria di assistere il paziente nel “posto giusto” (ospedale, day hospital, ambulatorio, domicilio) in relazione ai suoi reali bisogni di salute e tenendo conto dei costi sostenuti.

La pubblicazione dell’elenco di 208 test diagnostici con relativi criteri di appropriatezza, vincoli prescrittivi e sanzioni per i medici “disubbidienti” ha scatenato una tempesta mediatica dove tutti i protagonisti dello scontro hanno dimostrato scarsa dimestichezza con questo tema. Infatti, l’appropriatezza professionale non è mai stato oggetto di confronto tra politica e professionisti, nonostante il termine ricorra come un leitmotiv nei principali documenti di programmazione sanitaria: dalla 502/1992 al Piano sanitario nazionale 1998-2000, dal Dl 229/1999 al Dm sui Lea, dove si legge che «e prestazioni che fanno parte dell’assistenza erogata, non possono essere considerate essenziali, se non sono appropriate».

Di fronte alla lista dei 208 “sorvegliati speciali”, la levata di scudi della professione medica, rappresentata prevalentemente dal mondo sindacale, si è risolta in una mera difesa corporativa: i medici continuano a minacciare ancestrali forme di protesta, si dimostrano incapaci di proporre azioni concrete per ridurre l’inappropriatezza prescrittiva, arrivando a negarne continuamente l’esistenza, e si trincerano dietro il baluardo della medicina difensiva, paravento sempre valido per giustificare qualunque atto medico.

Dal canto suo, in un momento di pesante definanziamento della sanità pubblica, la politica ha generato soluzioni frettolose e semplicistiche a problemi complessi, dando alla luce una bozza di decreto che presenta tre talloni d’Achille. Innanzitutto, l’insolita accoppiata tra appropriatezza prescrittiva (di interesse cultural-professionale) e meccanismi sanzionatori (di interesse contrattual-sindacale) ha trasformato le buone intenzioni in cattive azioni. In secondo luogo, i criteri per definire le priorità rimangono avvolti dal mistero: inspiegabile che - eccezion fatta per Tac/Rm - tutta la diagnostica strumentale (doppler, gastroscopie, colonscopie, ecografia addome e pelvi, ecocardiografia, etc.) sia stata “graziata”, considerando le infinite liste di attesa e l’elevato rischio d’inappropriatezza prescrittiva.

Infine, rimane assolutamente implicito il metodo per definire la lista: dalle modalità di coinvolgimento dei professionisti, alla ricerca, valutazione, selezione e sintesi delle evidenze a supporto dei criteri di appropriatezza. Il parere favorevole del Consiglio superiore di Sanità - a cui nel frattempo è stata passata la “patata bollente” - sicuramente ne legittimerà i contenuti, ma non potrà ricostruire a posteriori un metodo inesistente.

In questo contesto, il tam tam mediatico ha disorientato i cittadini con insistenti messaggi su catastrofiche conseguenze per la loro salute (realisticamente nessuna) e per le loro tasche (se le prestazioni sono inappropriate è giusto che non siano a carico del Ssn) senza entrare nel merito di una duplice crisi: di sostenibilità della sanità pubblica e di credibilità della professione medica.

Dopo la sbornia di “chiacchiere e distintivo” è arrivato il momento di fare chiarezza e offrire certezze a politica, medici e cittadini, al fine di imboccare in maniera evidence-based l’accidentata via per l’appropriatezza.

1. I criteri di appropriatezza professionale derivano dalle evidenze scientifiche o, in assenza di queste, da processi di consenso formale.

2. Il primum movens dell’inappropriatezza professionale è l’asimmetria informativa tra evidenze scientifiche disponibili e conoscenze integrate dai medici nelle proprie decisioni e informazioni utilizzate da cittadini e pazienti.

3. L’inappropriatezza professionale può essere in eccesso (overuse) o in difetto (underuse): ridurre la prima permette di recuperare risorse, implementare la seconda richiede investimenti. Di conseguenza, qualunque strategia per ridurre l’inappropriatezza professionale deve essere guidata dal principio del “disinvestimento e riallocazione”, perché in tutti i percorsi assistenziali convivono aree di overuse e di underuse.

4. Una prescrizione non può essere dicotomicamente classificata come appropriata/inappropriata: esiste una categoria intermedia di dubbia appropriatezza influenzata dalle zone grigie della ricerca, dalla variabilità di malattie e condizioni e dalle preferenze e aspettative di cittadini e pazienti.

5. L’inappropriatezza professionale, in particolare quella relativa ai test diagnostici, non può essere “giustificata” solo dalla medicina difensiva, alla quale si affiancano altre determinanti di sovra-utilizzo: ipotrofia del ragionamento diagnostico ipotetico-deduttivo, logiche di finanziamento e incentivazione di aziende e professionisti basate sulla produzione di prestazioni, medicalizzazione della società, aspettative di cittadini e pazienti, turnover delle tecnologie sanitarie, conflitti di interesse.

6. Secondo la scienza che studia come modificare i comportamenti professionali non esistono evidenze che supportano l’efficacia delle sanzioni economiche per ridurre l’inappropriatezza prescrittiva.

7. Il continuo incremento dell’offerta e l’utilizzo indiscriminato delle tecnologie diagnostiche contribuisce all’eccesso di medicalizzazione della società perché la tecnologia, profondamente radicata nel nostro concetto di malattia e nella nostra cultura, genera atti di fede non basati sulle evidenze.

8. È indifferibile una reale implementazione dell’Hta per migliorare la governance delle innovazioni tecnologiche, dismettendo quelle obsolete e introducendo nella pratica clinica solo quelle che, oltre a presentare chiare evidenze di reali benefici, hanno un elevato value.

9. È indispensabile ricostruire un’adeguata relazione medico-paziente, fornendo informazioni bilanciate su rischi e benefici degli interventi sanitari, permettendo così al paziente di prendere decisioni realmente informate.

10. Le Istituzioni devono informare adeguatamente cittadini e pazienti sull’efficacia, sicurezza e appropriatezza degli interventi sanitari, al fine di arginare quell’asimmetria informativa tra ricerca e assistenza, che genera aspettative irrealistiche nei confronti di una medicina mitica e di una sanità infallibile, aumentando il contenzioso medico-legale.

Per superare la crisi di sostenibilità della sanità pubblica e avviare un virtuoso processo di disinvestimento e riallocazione, la politica deve smettere di rimborsare con il denaro pubblico gli interventi sanitari inappropriati, il medico è tenuto a ridurne le prescrizioni e il cittadino deve essere consapevole che sono superflui o addirittura dannosi per la sua salute.

Il servizio sanitario nazionale non è un supermercato dove chiunque ha diritto a tutto!


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