Lavoro e professione
Appropriatezza, Troise (Anaao): «L’efficienza si crea con i professionisti»
di Costantino Troise (segretario nazionale Anaao Assomed)
Il provvedimento del ministro della Salute sugli esami “inutili” ha reso trendy il termine appropriatezza. Diventato la ricetta magica per risolvere tutti i problemi della sanità italiana, anche in un’ottica di autofinanziamento, visto che il fondo sanitario nazionale 2016 sarà inferiore, con buona pace delle promesse del Ministro, alle necessità individuate dal Patto della Salute e confermate un mese fa nel Def.
I costi della medicina difensiva diventano un mantra di 13 miliardi, superiore alla intera farmaceutica convenzionata, senza citare le fonti, in assenza di stime attendibili. L’ennesimo luogo comune per fare da alibi all’espulsione dal perimetro della tutela pubblica di milioni di prestazioni ambulatoriali, la cui prescrizione è giudicata “eccessiva”, in un settore in cui le stime sono complesse e spesso limitate a indicazioni episodiche e valutazioni non accurate. Con risparmi fantasma in cui si mescolano costi fissi e costi marginali. Per di più, compiendo una invasione nel campo della autonomia professionale dei Medici con un atteggiamento intimidatorio che li addita come generatori di sprechi, da punire con sanzioni, pensate dalle Regioni ma dal ministro accettate, che inquinano il rapporto medico paziente. Se oggi il paziente pensa che un medico nega un esame perché non lo ritiene necessario, domani penserà che lo fa per non rischiare sanzioni.
Un attentato alla professione, secondo Slow Medicine, che sul tema non ha niente da imparare. E una mannaia che il governo si appresta a calare con l’effetto di aumentare la spesa dei cittadini, sia legata al ticket per le rigidità e la moltiplicazione di accessi che produce, sia a totale pagamento, a causa dell’aumento dei tempi di attesa che ne deriverà per molte delle prestazioni interessate. Un assist eccezionale al privato. Con il rischio di spingere le fasce più deboli della popolazione a ingrossare l’esercito dei 6 milioni di italiani che già rinunciano alle cure, secondo l’Istat, per difficoltà economiche, o alimentare una spesa out of pocket che già è ai massimi in Europa per la insufficienza di risposte da parte del sistema pubblico. Senza contare le incongruenze, evidenziate da alcune società scientifiche, in un elenco vistato dal Css ma stilato da funzionari ministeriali, laureati in Medicina magari, ma al di fuori del campo minato della relazione medico-paziente.
Compito della politica non è definire i criteri dell’appropriatezza per governare l’atto clinico attraverso procedure ed evidenze statistiche, quanto «promuovere e rispettare uno dei tratti essenziali della professionalità medica che è la capacità di discernere caso per caso i bisogni di salute dei pazienti e di assumere la decisione più appropriata in relazione alle condizioni della persona malata, scegliendo ciò che considera più conveniente in quel caso specifico e per quello specifico paziente» (Dawsonn 2009). Come detta la Corte costituzionale «non è di norma il legislatore a poter stabilire direttamente o specificamente quali siano le pratiche ammesse, con quali limiti e a quali condizioni... la regola di fondo in questa materia è costituita dall’autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a sua disposizione».
Ai soloni che accusano i Medici di non avanzare proposte, ricordiamo che il tema della appropriatezza, in tutte le sue declinazioni, appartiene alla deontologia e alla etica della professione, la quale è disponibile a trovare le modalità piu idonee al recupero dei margini di inefficienza attraverso la valorizzazione dei professionisti e non la loro umiliazione. Interventi continui e non spot, che, però, non pagano nell’immediato e affrontano il problema su altri terreni e con strumenti più efficaci. Quali la ottimizzazione delle linee guida esistenti con la partecipazione attiva delle società scientifiche delle varie discipline, per modificare i comportamenti professionali investendo su condivisione e formazione, e rileggere le prestazioni erogate alla luce delle evidenze scientifiche. Cominciando magari dalle 100 pratiche già individuate da Slow medicine. Arrivando a ridisegnare, però, i modelli organizzativi con al centro le competenze e le conoscenze dei professionisti per articolare e declinare le prestazioni sulle domande e sui bisogni dei cittadini, e non solo su note di bilancio. La governance non è neutra rispetto all’appropriatezza clinica.
Per non appiattirsi sulla demagogia e sulla facile cassa, la lotta contro gli sprechi richiede interventi di sistema che reclutino le intelligenze professionali e valorizzino il loro lavoro per il miglioramento delle cure e una più adeguata allocazione delle risorse. Attraverso azioni che rafforzino le cure primarie, le reti cliniche e le comunicazioni tra Mmg e specialisti, le dotazioni organiche, e quindi il tempo dei professionisti, e investano tutte le risorse disponibili per la formazione specifica. Senza escludere una revisione del prontuario farmaceutico e un potenziamento, anche intraospedaliero, dei farmaci generici. Centrale è la programmazione dell’offerta diagnostica, attraverso una politica di Health technology assessment che non gonfi l’offerta di apparecchiature inseguendo richieste particolari e clientelari, ed eviti la ridondanza, la cattiva distribuzione, un livello di vetustà eccessivo (il 36,6% delle Tac e il 20% delle Rmn ha più di 10 anni) che spreca in prestazioni ripetute circa 100 milioni. Senza dimenticare una legge sulla responsabilità professionale che garantisca il giusto equilibrio tra i diversi attori del sistema e promuova la massima sicurezza delle cure.
Consapevoli, però, della esistenza di dinamiche complesse. «I medici tutti i giorni temono di sbagliare una seria diagnosi e di far precipitare un loro paziente in una tragedia evitabile. Nelle nostre società sempre più punitive i medici temono di essere lapidati pubblicamente. Soprattutto i medici più giovani hanno paura dell’incertezza. Noi ordiniamo sempre più test per cercare, spesso invano, di essere sicuri di ciò che vediamo. La paura dei pazienti alimenta la paura dei medici e viceversa; specialmente nei sistemi sanitari frammentati che non presidiano la continuità delle cure. È solo all’interno di relazioni di fiducia che queste paure possono essere contenute». (Iona Heath, GP, editorialista del BMJ).
Continuando a evitare ogni forma di interlocuzione con i professionisti, meri destinatari di norme e sanzioni, incuranti della loro stanchezza fisica e psichica per un lavoro divenuto oltremodo gravoso e rischioso, in strutture che sempre meno investono sulla sicurezza delle cure e sulla formazione continua, si semina vento. Non sarà colpa dei sindacati se si produrrà tempesta.
© RIPRODUZIONE RISERVATA