Lavoro e professione
Il consenso informato nella cura di lungo periodo
di Antonio Monteleone (presidente AGeSPI Lombardia)
Il consenso che un paziente fornisce al medico, a seguito di precise e personalizzate informazioni, rappresenta un principio alla base della legittimità del lavoro di diagnosi e cura come stabilito dalla Convenzione del Consiglio d'Europa conclusa a Oviedo il 4 aprile 1997 e ratificata dall'Italia con la Legge n. 145 del 28 marzo 2001.
“Al riguardo, occorre rilevare che il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che «la libertà personale è inviolabile», e che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».” (Corte costituzionale sentenza 438/2008).
La Corte conclude che il consenso informato svolge la «funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'art. 32, secondo comma, della Costituzione».
Con tale sentenza il giudice delle leggi riconosce solennemente l'esistenza di un autonomo diritto all'autodeterminazione in ordine alla propria salute, distinto dallo stesso diritto alla salute. Per essere ancora più chiari, se manca il consenso informato, è possibile la liquidazione di un risarcimento secondo le regole proprie del danno causato da errore medico. Ciò anche se l'intervento è necessario e condotto a regola d'arte, perché non è stato dato agio alla persona di esprimere una consapevole adesione al trattamento proposto (Cassazione Civile, sez. III, sentenza 20/05/2016 n° 10414). Le condizioni esimenti sono solo due: uno stato di necessità attuale e non procrastinabile di un paziente incapace d'esprimersi, oppure l'esplicita e riscontrabile volontà del paziente di non essere informato.
Di fronte a tanta chiarezza giuridica sono da fare due osservazioni.
La prima è che «Il consenso informato assume significati diversi in contesti differenti, è messo in pratica in modi diversificati e raramente consegue l'ideale teorico.» (D. E. Hall, A. V. Prochazka, A. S. Fink, Informed consent for clinical treatment, CMAJ March 20, 2012 vol. 184 no. 5). Motivo per cui in molti e da tempo in Italia invocano l'adozione di un modello di consenso unico e obbligatorio per legge, da far redigere a un gruppo interdisciplinare composto da medici, avvocati, magistrati, rappresentanti degli erogatori dei servizi e, ovviamente, dei pazienti.
La seconda è decisamente più attuale e, per molti versi più urgente da approfondire con un apposito tavolo interdisciplinare.
Si parte dal considerare che il consenso, così com'è attualmente sancito, vale per le cure a ciclo breve (modello ospedaliero), che da tempo ormai sono travolte dalla epidemiologia indotta dalla transizione demografica.
Da decenni ci troviamo di fronte a una popolazione invecchiata e con prevalenza dei problemi di cronicità (malattie di lunga durata e spesso ingravescenti che colpiscono 1 italiano su 3), di comorbilità (problemi associati a una malattia iniziale) o di multimorbilità (più malattie contemporanee). Tutte situazioni che portano a un frequente ricorso al SSN per l'esigenza di costanti adeguamenti diagnostici, di revisione dell'intensità di cura e di personalizzazione di percorsi nella rete dei servizi. Purtroppo i trattamenti seguono ordinariamente linee guida concepite per raggiungere obiettivi legati a una singola patologia e anche la politerapia, male necessario in caso di problemi multipli, espone a rischi d'interazione tra i farmaci non certo chiari, per cui la letteratura documenta un alto tasso di reazioni avverse.
La progressione della o delle cronicità simultanee conduce di frequente alla non autosufficienza (impossibilità di adempire alcune o tutte le attività ordinarie e quotidiane del vivere) con un'ampia quota di essa dovuta alla demenza, intesa come incapacità più o meno grave d'intendere e di volere e quindi di agire consapevolmente e autonomamente.
Le regioni peraltro stanno implementando sempre più modelli organizzativi per la continuità delle cure che comportano il coinvolgimento di una pluralità di soggetti in rete e trasferimenti dei pazienti da un setting all'altro: dall'ospedale ai servizi territoriali e/o viceversa.
In tale quadro alcuni requisiti necessari per la validità del consenso informato diventano problematici. Mi riferisco ai requisiti di attualità, specificità e consapevolezza. Quest'ultimo, a causa del danno cognitivo nei dementi, porta a un frequente ricorso a figure vicarianti di tutela giuridica. Gli altri due vanno totalmente e al più presto rivisti, perché nell'ambito della cronicità il consenso informato non può che essere “prospettico e generale”, data la difficoltà di prevedere se non con basse probabilità la progressione e l'aggressività di una o più malattie croniche sul piano individuale. È solo pensabile una “ricognizione” del consenso in caso di cambiamenti significativi delle condizioni di salute e una sua “riconciliazione” quando si renda necessario un cambiamento di setting. In analogia a quanto avviene per il foglio unico di terapia, come da raccomandazione 17 del 2014 del Ministero della salute.
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