Lavoro e professione

Tempo di cambio rebus per i medici

di Mirko Schipilliti (Settore Anaao giovani -Regione Veneto)

La recente entrata in vigore dell’ormai famosa legge 161/2014 sull’orario di lavoro - con l’obbligo inderogabile di riposi e tetto massimo orario - ha permesso di mettere ordine anche su questioni lasciate spesso al caso o a supposizioni erroneamente tramandate.

Una situazione tipica con cui tutti noi abbiamo a che fare quotidianamente, ogni volta che entriamo in servizio, è quella inerente il misterioso “tempo di cambio”, ovvero il tempo che impieghiamo a svestirci per indossare il camice, o più spesso una tuta (casacca, pantaloni, cuffia, zoccoli), andando a sostituire il collega che smonta dal turno. Mi presento al momento dell’inizio del servizio già cambiato? Qualcuno “pretende” il cambio prima e qualcuno lo fa per “gentilezza” verso il collega, qualcuno dopo l’inizio del servizio, qualcuno si secca perché il collega arriva dopo l’inizio del servizio imputandogli un “ritardo”. Confusione.

Chiariamo subito che l’obbligo della divisa non è discrezionale, ma si impone nel duplice interesse del lavoratore e del datore di lavoro, secondo la normativa nazionale sulla sicurezza in ambienti di lavoro, che definisce come dispositivo di protezione individuale (Dpi) «qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo» (articolo 40 del decreto legislativo 626/1994, si veda anche Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 5 marzo 2014, n. 5176).

Nel nostro caso tali procedure riguardano anche la sicurezza dei pazienti, e sono spesso definite da specifici protocolli aziendali, rientrando inoltre nell’obbligo di riconoscibilità del personale sanitario da parte degli utenti anche per agevolarne i rapporti coi dipendenti pubblici (vedi inoltre l’obbligo di identificazione del personale a contatto con il pubblico: Codice disciplinare, articolo 12; circolare n. 3/2010 del dipartimento della Funzione pubblica sull’uso di cartellini identificativi in relazione all’identificazione del personale a contatto con il pubblico).

Dai limiti perentori sull’orario di lavoro, dal principio - anche se piuttosto vago - della “flessibilità oraria” dei dirigenti medici, e dalla giurisprudenza consolidata, non ci sono dubbi sul comportamento corretto da tenere.

Negli ultimi anni vi sono stati infatti numerosi contenziosi, giunti fino a giudizio in Cassazione, relativi alle richieste di retribuzione da parte di disparate categorie lavorative, inerenti al tempo impiegato per vestirsi e svestirsi che si veniva ad aggiungere all’orario di servizio, a causa dell’obbligo di divisa legato alle proprie mansioni.

Già il regio decreto 15 marzo 1923 n. 692, articolo 6, sancisce che «rientrano nell’ambito del lavoro effettivo i lavori preparatori e complementari che debbano eseguirsi al di fuori dell’orario normale delle aziende», mentre - più recentemente - ai sensi dell’articolo 2, punto 1, della direttiva 23/11/1993 n. 93/104 del Consiglio dell’Unione europea, rientra nell’orario di lavoro «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni», ribadito del resto dalla Cassazione con la sentenza 15734/2003.

In sintesi, con la sentenza 19358/2010, la Corte di cassazione ha ulteriormente stabilito che «l’orientamento secondo cui, per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato a essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e a essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera, consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni o attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (articolo 2104, comma 2, del codice civile) e autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva».

Successivamente, la sentenza della Cassazione n. 2837 del 7 febbraio 2014 ha inoltre precisato che «il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario e obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa», mentre la sentenza n. 3977 del 19 febbraio 2014 della Cassazione, sezione Lavoro, dispone che «al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva».

La Cassazione aveva, del resto, già affermato con sentenza n. 3763 del 14 aprile 1998, che il tempo di cambio rientrava nell’orario di lavoro «ove tale operazione sia eterodiretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione».

Ciò detto, risulta che il tempo di cambio è orario di lavoro effettivo, poiché siamo obbligati a lavorare con le divise messe a disposizione dall’Azienda sanitaria locale e a cambiarci nei locali preposti dalla stessa, ed è pertanto corretto e legittimo timbrare l’entrata in servizio esattamente in orario e cambiarsi solo successivamente, anche perchè rientrando il tempo di cambio nell’orario di lavoro non è possibile anticipare quest’ultimo, anticipo che può legittimamente non essere riconosciuto.

Ci si cambia quindi quando si è in servizio effettivo, poiché tale atto dovuto rientra nell’arco dell’attività lavorativa, né ci si può cambiare prima della fine poiché si è ancora a disposizione del datore di lavoro.

Pertanto, nel nostro caso, quando timbriamo la fine del servizio, il tempo eccedente, dalla fine effettiva del turno stabilito dall’ordine di servizio, risulterà dalla somma del tempo di cambio del collega che monta al nostro posto, del tempo per dargli le “consegne” e del nostro tempo di cambio a chiusura del turno, e dovrà peraltro rientrare nel tetto massimo consentito dalla legge n. 161.

Resta aperto il quesito se tutto questo tempo sia effettiva “flessibilità oraria” poiché questa durata (non poca, se provate a sommare tutti questi minuti nell’arco dell’anno) riguarda attività lavorative comandate, obbligatorie, permanenti e inderogabili, ben diverso dal superamento dell’orario di servizio per sopraggiunte emergenze o per chiusura di verbali o dimissioni che rientrano invece effettivamente in una “flessibilità” oraria del dirigente relativa al protrarsi del lavoro già in essere.

A titolo esemplificativo, per quanto riguarda il Comparto (che non ha flessibilità oraria), nel 2013 la Azienda sanitaria locale di Pescara ha dovuto riconoscere a 131 infermieri in circa 20 minuti da retribuire il tempo per vestizione, svestizione e tempo di consegne, mentre nel 2014 il tribunale di Pisa ha riconosciuto ai ricorrenti dell’Azienda universitaria ospedaliera Pisana un «tempo per cambio divisa» quantificato in 18 minuti (9 in entrata e 9 in uscita).

Mirko Schipilliti

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