Lavoro e professione

Responsabilità professionale, una legge in controluce

di Gianfranco Iadecola

La classe medica attendeva con ansia, e ormai da tempo, un intervento del legislatore nel settore della propria responsabilità civile, che fosse “protettivo” e riequilibratore rispetto alle tendenze interpretative avverse di un quasi ventennale “dominio” giurisprudenziale, che prende avvio con la prima decisione della Cassazione evocativa del “contatto sociale” (la sentenza 589/1999 della III sezione civile).
A partire da tale pronuncia, non per edictum principis ma unicamente per scelta giudiziale, si era venuto rapidamente instaurando un regime speciale della responsabilità risarcitoria del medico (conformante un vero e proprio “sottosistema” all’interno dell’illecito civile), alimentato da letture creative di regulae iuris di disciplina ad hoc, ispirate alla teoria del (richiamato) “contatto sociale” (fonte costitutiva di un rapporto di tipo contrattuale persino tra medico “pubblico” e paziente) e (peraltro dichiaratamente) oggettivamente orientate pro aegroto e - quindi - contra medicum (a causa delle implicazioni svantaggiose - per quest’ultimo - sul piano del termine di prescrizione e della ripartizione degli oneri probatori nel processo).
Per la verità, già nel 2012, il legislatore aveva deciso di reagire a una tale deriva extra ordinem della giurisprudenza di legittimità (di dubbia ortodossia istituzionale, come autorevolmente rilevato - cfr. Busnelli, Danno e Responsabilità, 5/2014, pag. 473 e seguenti -, e foriera di “medicina difensiva”), che non si peritava di farsi, da “fruitrice” di precetti normativi, “autrice” di un diritto civile speciale per la categoria dei medici; ma la legge 189/2012 (impropriamente denominata “legge Balduzzi”) non aveva soddisfatto, nonostante i propositi, l’aspettativa di una (pur non differibile) restaurazione (per così dire) controriformistica.
È noto come tale disciplina avesse incongruamente affidato l’attuazione della agognata inversione di tendenza unicamente al laconico - per nulla esplicativo - riferimento letterale all’articolo 2043 del codice civile; il che, se aveva fatalmente innescato decisioni di merito tra loro contrastanti (ma pur impegnatamente motivate), aveva incontrato il (pratico) rifiuto di una effettiva analisi da parte della Suprema corte, che nessun credito mostrava di riporre nella presunzione del “legislatore consapevole”, sbrigativamente riproponendo il dogma del “contatto sociale”, matrice di un rapporto - pazien- te/medico pubblico - assimilabile al contrattuale (cfr. Cassazione, sezione III civile, ordinanza 8940/2014).

La nuova regolamentazione della responsabilità civile sanitaria, recata dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 (cosiddetta legge “Gelli-Bianco”), appare disporsi in linea con i desiderata della classe medica, in primis attraverso la espressa e univoca riconduzione della responsabilità professionale del sanitario della struttura pubblica nel - naturale e originario, nella stessa “lettura” di legittimità ante “contatto sociale” - alveo extracontrattuale.
Nel versante della responsabilità penale, per il vero, non si delineavano esigenze altrettanto pressanti di un intervento pro medico del legislatore. La “condizione penale” del sanitario aveva infatti già beneficiato di un netto miglioramento a partire dai noti “assestamenti” giurisprudenziali (soprattutto) in materia di accertamento della causalità della omissione (ove la sentenza “Franzese” ha notoriamente dettato, sin dal 2002, regole probatorie e criteri di verifica di garanzia, cui è preconizzabile ancora lunga vita nelle applicazioni giurisprudenziali) e di qualificazione della rilevanza delittuosa della violazione del principio del consenso del paziente (ritenuta ormai esente da rimprovero penale dalla sentenza delle sezioni Unite “Giulini” del 18 dicembre 2008, che ha estraniato il trattamento medico-chirurgico eseguito senza consenso dai delitti contro la vita e l’incolumità individuale nonché - a parte l’ipotesi della prevaricazione del rifiuto di cure espresso dal paziente compos sui - contro la stessa libertà morale).

Deve dirsi che lo stesso profilo della colpa professionale medica era venuto guadagnando, in sede penale, regole di valutazione univocamente più favorevoli. Ciò (per schematica sintesi) era accaduto (certo, anche) (a) per effetto delle previsioni della menzionata “legge Balduzzi” (legge 189/2012, articolo 3, comma 1), portatrici della depenalizzazione della “colpa lieve” del medico che si fosse “attenuto” a linee-guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; nonché (b) in conseguenza delle applicazioni giurisprudenziali di tali previsioni: orientate a declinare quale “colpa lieve” del medico qualsiasi sua colpa “non grave” (così garantendo spazi assai più ampi di irrilevanza penale del contegno colposo del sanitario rispetto alla voluta legis, a coprire anche condotte affette da colpa - non lieve, ma - “media” o comunque notevole, con esclusione della sola colpa grave, alias grossolana e macroscopica); ma anche proclivi, dopo una originaria lettura restrittiva (cfr. Cassazione 11493/2013; Cassazione 16944/2015; Cassazione 26996/2015), a estendere ben oltre il perimetro della imperizia la tipologia di colpa (“lieve”) divenuta non punibile, sì da ricomprendervi la stessa negligenza e l’imprudenza (quando le linee-guida contengano regole prescrittive di particolare attenzione e cura nello svolgimento di attività considerate “pericolose”, investendo «più la sfera dell’accuratezza, che quella dell’adeguatezza professionale» della prestazione: cfr. Cassazione 23283/2016; Cassazione 45527/2015; Cassazione 47289/2014; si pensi, a esemplificazione di un tale contesto, alla conta delle garze, alle misure per la prevenzione di gesti autolesivi da parte dei pazienti, alle procedure per la disinfezione, alle dimissioni dei ricoverati ecc.).

Ma il segnale più indicativo di una svolta verso criteri di giudizio ispirati a maggiore equanimità e comprensione proviene dalla comparsa, nella giurisprudenza di legittimità, di un nuovo e promettente corso interpretativo della colpa medica: in forza del quale il vaglio del giudice, da un lato (e in aderenza al criterio più corretto di accertamento della colpa), dà rilievo alla concreta situazione circostanziale in cui il soggetto agente ha osservato la condotta causativa di pregiudizio, dall’altro, si apre all’apprezzamento del cd. “versante soggettivo” della colpa. In tale prospettiva, diventano momenti imprescindibili dell’indagine probatoria non soltanto la intervenuta - oggettiva - violazione di una norma cautelare, bensì, anche, la effettiva rimproverabilità personale del comportamento tenuto dal sanitario in quanto, nel contesto in cui ha operato, fosse da lui realmente esigibile il comportamento alternativo capace di salvaguardare l’interesse protetto (cfr., tra le altre: Cassazione, sezione IV, sentenze: 39592/2007, ric. Buggè; 16328/2011, ric. Montalto; 4391/2012, ric. Di Lella; 16237/2013, ric. Cantore; 23283/2016).

Per questa via, che persegue la “personalizzazione” (quasi una “cucitura su misura”) del rimprovero di colpa (attraverso la valorizzazione di tutti gli aspetti peculiari del fatto, di tipo oggettivo e soggettivo), la Corte di cassazione ha inaugurato un percorso di lettura della colpa medica meno rigoristico e severo specificamente in ambito di imperizia (ma secondo un criterio di valutazione fondatamente estensibile anche alle ipotesi della negligenza e della imprudenza: per lo meno nelle situazioni in cui il perimetro circostanziale sia in grado di condizionare, riducendolo, il coefficiente necessario di attenzione, di accortezza, di impegno e di ponderatezza del soggetto agente).

Si ritrova affermato nelle pronunce di legittimità appena richiamate ciò che i medici hanno tradizionalmente rimproverato ai giudici di non considerare, e cioè che essi «non operano in una campana di vetro», e vi si ritiene dovuta una «attenuazione dell’imputazione soggettiva» (e quindi un giudizio sulla colpa ispirato a comprensione e larghezza di vedute) non soltanto in caso di elevata difficoltà tecnica della prestazione da eseguire (per la ambiguità, l’atipicità, l’oscurità, la novità del quadro patologico del paziente), ma in relazione a ogni fattore contingente che complichi la situazione in cui il sanitario viene a operare (l’urgenza - e, tanto più, l’emergenza - terapeutica, la mancanza di presidi e di strumenti adeguati, la complessità e il disagio organizzativi, le difficoltà di specifici settori di cura tra cui, in particolare, quello riferibile alla medicina psichiatrica); dovendo il giudicante tenere anche in conto (quali fattori di valutazione) il grado di esperienza e il livello professionale del sanitario chiamato in causa e le sue stesse condizioni personali al momento dell’intervento (si veda, per tutte, Cassazione 16237/2013, Cantore e, più recentemente, Cassazione 23283/2016, già citate).

La situazione iniziale. Se si vanno ad assommare le previsioni della “legge Balduzzi”, in ispecie nella “magnanima” ermeneutica della Suprema corte, con la confortante apertura giurisprudenziale di cui si è appena dato conto (e della quale va auspicato un sempre maggiore radicamento, dal momento che essa si raccorda nel modo più coerente al principio di colpevolezza, che postula la punizione dei comportamenti - non solo violativi della prescrizione cautelare, ma anche - effettivamente rimproverabili al soggetto agente, secondo giudizio ex ante e in concreto), sembra potersi ragionevolmente concludere, in linea con quanto già più sopra enunciato, che, allo stato, la “condizione penale” del medico non attraversasse momenti di “sofferenza”, venendo a incontrare essa, anzi, una sempre più illuminata adeguatezza di vaglio da parte dei giudici.

 La legge 24/2017. Accade tuttavia che l’assai recente intervento normativo (la già citata legge 24/2017, cosiddetta legge “Gelli-Bianco”) provveda alla formulazione di una nuova previsione penale in relazione alla morte o alle lesioni personali cagionate «nell’esercizio della professione sanitaria», inserendo (cfr. articolo 6 della legge) nel codice (penale) l’articolo 590-sexies (rubricato: «Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario»). Tale disposizione, a volerne riassumere i contenuti:

- abroga la disciplina penale (relativa alla depenalizzazione della colpa lieve) della “legge Balduzzi” (più precisamente, ne abroga l’intero comma 1 dell’articolo 3);

- introduce (quella che appare) una ipotesi di generalizzata depenalizzazione della colpa medica per (la sola) imperizia (e dunque non estesa alle ipotesi della negligenza e della imprudenza, per nulla riguardate dal novum legislativo), la cui operatività è subordinata alla contemporanea presenza di due presupposti: occorre, infatti, che dall’«esercente la professione sanitaria» siano state «rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali», e che dette raccomandazioni «risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

Viene così praticamente sancita la liceità penale della imperizia in cui incorra il sanitario nell’applicazione di tali “raccomandazioni”, ferma restandone l’ordinaria rilevanza (quale che sia il grado della imperizia medesima, e dunque anche se lieve) quando queste ultime (prescelte e applicate dal medico) non siano confacenti alle peculiari condizioni del paziente e alle relative esigenze di diagnosi e cura.

 La «abolitio criminis» . Senza dubbio, la introduzione di una abolitio criminis, sia pure sub condicione, in relazione ai reati di lesioni personali e di omicidio colposo commessi dal medico per imperizia, rappresenta il profilo più significativo (e sorprendente) della disciplina penale in esame, anche e soprattutto perché la nuova disposizione di favore opera in modo generalizzato, ovvero indipendentemente sia da coefficienti di (elevata) difficoltà della prestazione diagnostico-terapeutica eseguita dal sanitario, sia dal grado della imperizia consumata, e, dunque, anche in caso di imperizia grossolana o macroscopica (alias grave).

A una tale stregua, il legislatore si distacca palesemente dai criteri di valutazione dell’imperizia ormai sedimentati nel “diritto vivente”, a partire dai dicta - fondamentali e costitutivi - della sentenza 166/1973 della Corte costituzionale, sino al pluriannale (costante) adeguamento a essi della Corte di cassazione (dapprima attraverso l’esplicito richiamo al precetto dell’articolo 2236 del Cc, e, in prosieguo, mediante il recupero del «nucleo di razionalità di giudizio» innegabilmente insito in tale disposizione); (criteri) secondo i quali una valutazione benevola della mancanza di conoscenza delle leggi dell’arte o di un deficit di abilità tecnica da parte del medico (e dunque dell’imperizia di questi) poteva essere giustificata solo in caso di elevata difficoltà della prestazione da eseguire e sempre che la colpa del sanitario non fosse rilevante al punto che nessun altro sanitario dello stesso livello ed esperienza professionali vi sarebbe incorso (e cioè sempre che non si trattasse di una colpa grave, ossia madornale e inescusabile).

Si può ritenere, a voler esemplificare, che vengano a beneficiare della appena descritta “larghezza di vedute” del novello legislatore i medici che commettano errori (si ribadisce: quale che ne sia la gravità, e anche ove il caso trattato sia esente da ogni complessità e anzi di facile e routinaria soluzione) nella fase di trasposizione applicativa delle linee guida (sempre che congruamente prescelte). L’unica ipotesi di permanente rilevanza penale della imperizia sanitaria è quella relativa all’assecondamento di linee guida che siano inadeguate alle peculiarità del caso concreto: si ritiene cioè meritevole di punizione il medico che, secondo giudizio (naturalmente) ex ante, abbia prescelto e si sia attenuto a un «sapere scientifico codificato» estraneo e non conferente alle particolarità delle condizioni del suo paziente. A tale ipotesi potrebbe essere fondatamente ricondotta anche la opzione del sanitario di insistere nella applicazione delle “raccomandazioni” provenienti dalle linee guida pur quando le stesse vengano a risultare, in itinere, nell’andamento della cura, sprovviste di vantaggiosità ed efficacia per la persona assistita.

 Norme in favore dei camici bianchi. Nei primi commenti alla nuova disciplina penale (Brusco, Il Penalista, 1° marzo 2017; Piras, Diritto penale contemporaneo, 1° marzo 2017) si manifesta opinione diversa da quella appena esposta, praticamente ritenendosi la disposizione in esame priva di ogni valenza innovativa e meramente destinata alla enunciazione constatativa, ovvia quanto inutiliter data, dell’assenza di profili di colpa per imperizia allorché il medico abbia “rispettato” il sapere scientifico più accreditato (selezionato secondo le indicazioni di legge), dopo averlo adeguatamente individuato in relazione alle peculiari condizioni del suo paziente.

Appare evidente che se si intende il “rispetto” di cui al dettato della legge come condotta applicativa esatta, puntuale e completa delle «raccomandazioni previste dalle linee guida... ovvero, in mancanza di queste, alle buone pratiche clinico assistenziali», la norma recherebbe nient’altro che la indicazione di un comportamento del sanitario del tutto conforme a perizia, e potrebbe effettivamente essere considerata superflua e inespressiva (salvo che per la previsione della - segnalata - residuante ipotesi di contegno imperito penalmente rilevante, legata alla “cattiva scelta” delle linee guida).

Parrebbe, peraltro, che la “consapevolezza” da (doverosamente) accordarsi al legislatore (il principio di “consapevolezza del legislatore” dovrebbe costituire un ordinario canone interpretativo del suo “prodotto”) e lo spiccato animus adiuvandi (nei confronti del medico) che certamente permea la legge 24/2017 (e che ragionevolmente depone a favore di una lettura in chiave di volontà di alleviamento della stessa posizione del sanitario che sbagli per imperizia) possano legittimare l’interpretazione più sopra rassegnata: la quale implica, da un lato, una accezione evidentemente non letterale del “rispetto” delle “raccomandazioni” di cui alla fattispecie dell’articolo 590-sexies del Cp, da intendersi piuttosto come evocativo dell’atteggiamento del sanitario che si sia “ispirato a esse”, conseguentemente “orientando” le proprie scelte diagnostiche o terapeutiche, e, dall’altro, che il medico incorra in imperizia nella fase dell’adattamento applicativo del «sapere scientifico codificato», previamente selezionato in modo corretto rispetto alle “specificità” del paziente in trattamento.

Non può sfuggire, d’altra parte, che il senso che qui si attribuisce alla formulazione dell’articolo 590- sexies, secondo comma, del Cp incontri un significativo riscontro confermativo nell’applicazione riservata dalla giurisprudenza di legittimità all’articolo 3, comma 1, della “legge Balduzzi”, ove pure compariva il principio della «non responsabilità penale per colpa lieve» dell’«esercente la professione sanitaria» che «si attiene» a linee guida e a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.

Tale disposizione di favore, essa stessa letteralmente evocante l’«attenersi» del medico ai più qualificati precetti scientifici disponibili (secondo espressione che appare francamente un sinonimo del “rispettare” gli stessi, di cui alla legge 24/2017), è stata dalla Suprema corte ordinariamente riferita (cfr., tra le molte, Cassazione, sezione IV, sentenze 16237/2013, 11493/2013; 45527/2015; 8080/2017) alle situazioni in cui il sanitario avesse errato «nel processo di adeguamento del sapere codificato alle peculiarità contingenti», e cioè nella trasposizione attuativa di detti precetti (cui aveva correttamente ispirato il proprio comportamento, ossia che aveva esattamente individuato in relazione alle specifiche esigenze diagnostiche-terapeutiche del malato).

Vale aggiungere, a sostegno della sovrapponibilità delle due locuzioni verbali, che la stessa legge 24/2017 impiega indifferentemente, mostrando palesemente di considerarli quali sinonimi, i termini «rispettare» e «attenersi»: e infatti, se nel testo dell’articolo 590-sexies del Cp in esame (come visto, introdotto dall’articolo 6 della legge) si dice di «raccomandazioni... rispettate», nell’articolo 5 (della legge medesima) si pone l’enunciato di fondo e generale (richiamato per relationem dallo stesso articolo 590-sexies del Cp, allorché indica le modalità di «definizione e pubblicazione» delle linee guida) secondo cui «gli esercenti le professioni sanitarie... si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni...» ivi disciplinate.

Che fine fa il criterio di ragionevolezza? Ora, se quella di cui si è appena dato conto può costituire una attendibile interpretazione della nuova formulazione normativa, non possono nascondersi serie riserve sul piano della conformità a criterio di ragionevolezza (e dunque nella prospettiva del precetto dell’articolo 3 della Costituzione) della scelta operata dal legislatore, dal momento che si sarebbe sancito - con indiscriminato riferimento alla colpa per imperizia nell’esercizio della professione sanitaria - un trattamento penale ingiustificatamente differenziato e favorevole.

Deve essere ribadito che l’attività medica (e sanitaria in genere) merita protezione dall’ordinamento penale quando sia esercizio difficile, perché non si potrebbe pretendere da tutti coloro che la praticano il massimo della bravura tecnica sì da pervenire a punirne ogni e qualsiasi errore anche a fronte di prestazioni di elevata difficoltà e complicatezza; in altre parole, è giusto che, se la prestazione si presenta assai complessa, il sanitario sia assoggettato a sanzione penale non per qualsiasi errore commesso, ma solo se si accerta che egli risulti privo dei “fondamentali” della sua professione, ossia manchi di quelle conoscenze e abilità di base che si devono pretendere da parte di ogni medico (il che vale a dire: quando versi in colpa grave).

Ma se l’attività che il medico è chiamato a svolgere sia semplice e agevole nella sua routinarietà, non pare possa trovare ragionevole spiegazione approntare regole speciali di favore, tanto meno tali da garantirgli in ogni caso l’impunità penale, anche quando l’inadeguatezza tecnica della prestazione eseguita (pur nella piana situazione ipotizzata) sia conclamatamente grave e inescusabile.

Insorgerebbe, insomma, serio dubbio sulla conformità alla Costituzione della disposizione in esame, e il rischio di uno scrutinio negativo della Corte costituzionale sarebbe forte, specie alla luce dell’insegnamento dalla stessa impartito con la decisione 166/1973, più sopra citata, secondo il quale - come si ricorderà - la valutazione al limite della colpa grave dell’imperizia non può oltrepassare il circoscritto perimetro della prestazione professionale implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà: solo in tal caso, rilevava la Consulta (espressamente richiamando l’articolo 2236 del Cc), «la deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha in sé una adeguata ragione d’essere», essendo «l’indulgenza del magistrato direttamente proporzionata alla difficoltà del compito».

Le linee guida e la libertà terapeutica. Nel primo dibattito sulla nuova disciplina della responsabilità sanitaria si è più volte affacciata la preoccupazione di una limitazione della libertà diagnostico-terapeutica del medico in conseguenza della predeterminazione ope legis delle linee guida alle quali egli “si attiene”, ai sensi dell’articolo 5 della legge 24/2017 e per gli effetti liberatori (di depenalizzazione) di cui all’articolo 6 (articolo 590-sexies, secondo comma, del Cp) della legge medesima, al punto da parlarsi di rischio di “una medicina di Stato” o “burocratizzata”.

Nell’appena citato articolo 5 si prevede, in effetti, che le linee guida cui “attenersi” siano (solo) quelle «elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del ministro della Salute» (le medesime, con i previsti aggiornamenti biennali, vengono pubblicate sul sito internet dell’Istituto superiore di Sanità pubblica); si stabilisce poi, nell’articolo 6 (e precisamente nel citato articolo 590-sexies, secondo comma, del Cp), che condizione di operatività della (già esaminata) clausola di depenalizzazione della colpa per imperizia sia il fatto che vengano dal medico «rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge» (le quali “risultino”) «adeguate alle specificità del caso concreto».

Si può constatare che il nuovo legislatore, nel mutuare - chiaramente-dalla “legge Balduzzi” l’assunzione delle linee guida e delle buone pratiche a parametro di valutazione della colpa del medico, abbia posto rimedio a una - rapidamente evidenziatasi - criticità applicativa di quella legge, connessa alla indeterminatezza del “sapere scientifico codificato” che il sanitario avrebbe dovuto farsi carico di reperire e assecondare, il quale veniva solo genericamente evocato come «accreditato dalla comunità scientifica» (articolo 3, comma 1, della legge 189/2012), ma la cui individuazione a opera del medico non era agevolata dalla indicazione preventiva di alcun criterio di scelta.

In effetti, la legge 24/2017 provvede a integrare la precedente disciplina attraverso la selezione e la specificazione delle linee guida “affidabili” (per il vero nulla dicendo a proposito delle “buone pratiche”), identificate in quelle provenienti da società scientifiche e associazioni di cui vengono regolati i requisiti per la iscrizione nell’elenco istituito presso il ministero della Salute (con riferimento, tra l’altro, all’inesistenza del per la iscrizione nell’elenco istituito presso il ministero della Salute fine di lucro e alla dichiarazione e regolazione di conflitti di interesse); affidando all’Istituto superiore di Sanità il compito di controllare la correttezza metodologica e il fondamento scientifico delle raccomandazioni elaborate dai soggetti citati.

Non può - allora - disconoscersi che il medico sia affrancato da impegni accertativi che potevano risultare onerosi e difficilmente esigibili nei termini pretesi dalla giurisprudenza di legittimità, la quale richiedeva da parte del sanitario la verifica non solo della autorevolezza e del credito dei principi scientifici contenuti nelle linee guida individuate, ma anche dell’assenza sia di condizioni di incompatibilità nei “facitori” delle stesse che di finalità meramente economicistiche e di risparmio (cfr., fra le altre, Cassazione, sezione IV, 16237/2013, citata.).

È anche vero però, rebus sic stantibus, che, se si considera che il Tribunale di Milano (ord. del 21 marzo 2013) ebbe, all’indomani della entrata in vigore della legge cd. “Balduzzi”, a porne questione di costituzionalità dell’articolo 3, comma 1, per violazione del principio di libertà della scelta terapeutica ex articoli 3 e 33 della Costituzione (prefigurando i prevedibili effetti frenanti sulla ricerca scientifica e la sperimentazione clinica connessi all’appiattimento delle prassi mediche nonché lo scoraggiamento della ricerca di iniziative più personalizzate e adeguate), si potrebbe fondatamente ritenere che vengano oggi a delinearsi, per effetto delle nuove e “categoriche” previsioni normative, ragioni maggiormente pregnanti di sostegno ad analoga questione.

 Le linee guida viste dalla Cassazione. Il tema della rilevanza delle linee guida è stato ampiamente affrontato nella giurisprudenza di legittimità in sede di applicazione del citato articolo 3, comma 1, della “legge Balduzzi”.

La Suprema corte ha riconosciuto al richiamo (introdotto da tale disposizione) al sapere scientifico più qualificato (espresso dalle linee guida e dalle prassi accreditate) il pregio di avere conferito maggiore tassatività e precisione al contenuto della colpa per imperizia (sino ad allora genericamente associata al mancato rispetto di indefinite “leggi dell’arte medica”), ma anche l’effetto benefico di ridurre e superare gli spazi dell’incontrollato soggettivismo del terapeuta, costituendo una utile guida per orientarne in modo appropriato ed efficiente le decisioni.

La Cassazione ha ascritto, per questa via, alle linee guida la natura di «istruzioni di massima», o di «autorevole raccomandazione», affermando che, pur possedendo un innegabile contenuto genericamente cautelare, esse non potrebbero essere assimilate a delle vere e proprie prescrizioni cautelari (quand’anche provviste di elasticità), che offrano standards legali precostituiti e siano vincolativamente dettate in relazione alle specificità del singolo caso concreto (per il quale, in realtà, possedendo la natura di raccomandazione di carattere “generale”, neppure sono predisposte); espressamente, quindi, (la Cassazione) concludendo che la loro infrazione non possa configurare una ipotesi di colpa specifica ex articolo 43, terzo alinea, del Cp (cfr., in particolare, sentenze 16237/2013, 23283/2016, citate).

E se il medico si attiene a linee guida «altre»? Gli approdi della giurisprudenza di legittimità, tra l’altro in linea con le ordinarie posizioni della medicina legale, non possono che essere condivisi, poiché corrispondono alla natura stessa - delle linee guida - di “direttive scientifiche” approntate per classi di pazienti, e non di precetto calibrato sulla peculiarità della situazione del singolo malato.

Peraltro, sembra anche doversi prendere atto che se, nella formulazione dell’articolo 590-sexies, secondo comma, del Cp, la irrilevanza penale dell’imperizia commessa dal soggetto agente è strettamente condizionata alla scelta applicativa - da parte dello stesso - di una linea guida che, risultando «adeguata alle specificità del caso concreto», rientri tra quelle «definite e pubblicate ai sensi di legge», ne scaturisca che, per lo meno ai sensi e per gli effetti beneficiali della previsione normativa in questione, l’adeguamento alle raccomandazioni contenute nelle linee guida “istituzionalmente validate” diventi di fatto vincolante e imperativo per il medico.

Se così è, e nei limiti della possibile fruizione della clausola di depenalizzazione (che - si potrebbe osservare - non sembra essa stessa esente da dubbio di costituzionalità con riferimento alla ragionevolezza della scelta legislativa di non prevedere una rilevanza egualmente risolutiva - della valenza penale della condotta per imperizia - in caso di osservanza da parte del medico di principi scientifici dotati di pari o superiore credito all’interno della comunità scientifica internazionale), non pare discutibile che il medico subisca, in parte qua, una deminutio della propria libertà di diagnosi e cura (anche se potrebbe pure rilevarsi che permanga comunque uno spazio di discrezionalità tecnica in capo al medico in relazione al vaglio - che gli è riservato - di «adeguatezza» delle linee guida «istituzionali» alle «specificità del caso concreto»).

Al di fuori, peraltro, del perimetro di operatività della disposizione di favore contenuta nell’articolo 590- sexies, secondo comma, del Cp, e, dunque, ai fini dell’ordinario accertamento processuale della colpa per imperizia professionale, deve viceversa ritenersi che tornino a valere i criteri valutativi di verifica (non variati dal nuovo testo normativo) e le qualificazioni (esse stesse immodificate) sulla natura delle linee guida da tempo elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, la quale non ha mai messo in discussione la piena libertà diagnostico-terapeutica del medico.

Ne deriva che il medico che nel trattamento del paziente non si attenga alle linee guida predeterminate ai sensi della legge 24/2017, ma ritenga di assecondarne altre, ad esempio provenienti da società scientifiche autorevoli ma che non si siano preoccupate di iscriversi nell’«elenco istituito e regolamentato con decreto del ministro della Salute», non potrebbe essere, automaticamente e ipso facto, assoggettato a rimprovero di colpa per imperizia, come se si venisse a delineare a suo carico una ipotesi di colpa specifica.

In tal caso (come - parrebbe - anche nel caso in cui, pur in presenza di linee guida confacenti alle particolari condizioni del paziente, il sanitario le trascuri e assecondi direttamente le buone pratiche clinico-assistenziali), il giudizio di responsabilità colposa non potrebbe che essere condizionato al riscontro dei fattori dimostrativi della imperizia; e il relativo addebito troverebbe la sua fondatezza non nel semplice fatto di avere il medico prescisso dalle linee guida “legali” (che abbiano ricevuto “validazione istituzionale”), ma nell’essersi conformato a informazioni scientifiche sprovviste di credito nella comunità degli esperti o ormai superate dalle acquisizioni tecnico-scientifiche sopravvenute al punto da essere considerate desuete e sconsigliate, ovvero anche nell’avere scelto linee guida che già ex ante apparivano non pertinenti alla contingenti necessità diagnostico-terapeutiche del malato (o, ancora, nella permanenza della loro applicazione, pur essendosene chiaramente appalesata la ininfluenza sullo stato di salute del malato medesimo).

 Nulla cambia fuori dal 590-sexies. Un profilo di problematicità solo apparente sarebbe quello in ordine alla perdurante applicabilità - in costanza della nuova disciplina penale in materia di imperizia - del precetto dell’articolo 2236 del Cc, ovvero, e più fondatamente, del “criterio di razionalità del giudizio” (e della “regola di esperienza”) che esso esprime (come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità: a partire dalla sentenza 39592/2007, Buggè).

Al di là, invero, della stessa indicazione (non ostativa) proveniente dal tenore letterale della formulazione normativa (l’articolo 590-sexies del Cp si limita ad abrogare l’articolo 3, comma 1, della “legge Balduzzi”, senza fare alcun riferimento alla previsione civilistica richiamata), non pare ravvisarsi alcuna probante ragione per una interruzione dell’illuminato corso giurisprudenziale (più sopra ricordato) che, in particolare in tema di imperizia, in adesione ai corretti parametri di verifica della colpa, ha mostrato di farsi sempre di più carico delle elevate difficoltà di un irreprensibile esercizio dell’attività medica in taluni (impervi) contesti circostanziali (pervenendo a soluzioni valutative ispirate a comprensione e benevolenza).

Vale infatti ricordare in merito che, come già rilevato, il contenuto della previsione di depenalizzazione di cui al secondo comma dell’articolo 590-sexies del Cp ha un preciso perimetro di operatività e non interferisce in alcun modo sugli ordinari criteri di accertamento della colpa per imperizia, i quali non subiscono variazione.

Il possibile «colpo di coda» della legge Balduzzi. I rapporti successori tra le disposizioni penali della legge 24/2017 e della “legge Balduzzi” sono necessariamente condizionati dal fatto che l’applicazione del nuovo statuto di disciplina è subordinata alla acquisita disponibilità delle linee guida accreditate e validate secondo la procedura regolata dalla recentissima legge (ex articolo 5 della stessa).

La stessa prevista operatività suppletiva delle buone pratiche clinico-assistenziali è ragionevolmente destinata a concretizzarsi solo una volta varate (“definite e pubblicate”) le linee guida stesse, atteso il ruolo subordinato e succedaneo che a esse è attribuito nella legge rispetto a queste ultime. Sicché, sino al perfezionamento del processo di definizione e pubblicazione, la nuova disciplina penale non risulterà praticamente utilizzabile, e, d’altra parte, quando lo diventerà (in una sorta di operatività differita), essa non potrà essere applicata ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore.

In tali termini sembrerebbe essersi pronunciata la stessa Suprema corte in occasione della prima (effettiva, per quanto noto) pronuncia sugli aspetti penali della legge 24/2017, della quale è allo stato conosciuta solo la “notizia di decisione”, che vale comunque la pena di riportare:

«La legge 24/2017 ha introdotto, all’articolo 5, un nuovo statuto disciplinare delle prestazioni sanitarie, governato dalle raccomandazioni espresse dalle linee guida accreditate e, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali»;

«Ai sensi dell’articolo 590-sexies del Cp introdotto dall’articolo 6 della medesima legge, tale nuovo quadro disciplinare è rilevante anche ai fini della valutazione della perizia del professionista con riguardo alle fattispecie di cui agli articoli 589 e 590 del Cp; e, per la sua novità, trova applicazione solo ai fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della novella»;

«Per i fatti anteriori può trovare ancora applicazione, ai sensi dell’articolo 2 del Cp, la disposizione di cui all’abrogato articolo 3, comma 1, della legge 189/2012 che aveva escluso la rilevanza penale delle condotte lesive connotate da colpa lieve, nei contesti regolati da linee guida e da buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica» (Cassazione, sezione IV udienza del 20 aprile 2017, P.C. Tarabori c/ De Luca).

A una tale stregua, viene a determinarsi uno “spartiacque” tra la precedente e la successiva disciplina: nel senso che ai fatti pregressi (commessi prima dell’entrata in vigore della legge 24/2017) potrà continuare ad applicarsi l’articolo 3, comma 1, della “legge Balduzzi” (ma non la nuova disciplina, neppure ove ritenuta più favorevole), laddove alle condotte mediche successive si applicherà unicamente la legge 24/2017 (essendo preclusa l’applicazione della norma della “legge Balduzzi”, ove anche ritenuta più vantaggiosa, per effetto della sua sopravvenuta abrogazione espressa, ex articolo 590-sexies, comma terzo, del Cp).

Attinte tali conclusioni, non può sfuggire come residui un aspetto (realmente) problematico relativamente ai comportamenti osservati dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina (e cioè dal 1° aprile 2017), ma prima del perfezionamento delle procedure di accreditamento e validazione delle linee guida previste dalla legge, i quali (comportamenti), se è esatto quanto dedotto, rimarrebbero di fatto sprovvisti di “copertura” penale.

Ciò a meno di non ritenere (distaccandosi dalle proposizioni più sopra poste) che, finché non si saranno rese disponibili le linee guida “legali”, il parametro di valutazione della colpa per imperizia debba essere (unicamente) il rispetto delle buone pratiche clinico assistenziali (così interpretando il secondo comma dell’articolo 590-sexies del Cp).

Se dovesse pervenirsi a tale conclusione, data l’assenza - nella legge 24/2017 - di qualsiasi definizione e qualificazione di tali buone pratiche, queste dovrebbero essere ragionevolmente identificate con le prassi mediche accreditate dalla comunità scientifica e sostenute da principi scientifici generalmente condivisi.

Per questa via, come si vede, si tornerebbe al parametro di giudizio fissato (ad altri fini) dalla “legge Balduzzi” (la quale peraltro disponeva su di un piano di parità linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica: cfr. articolo 3, comma 1, della legge 189/2012): paradossalmente facendo dipendere da un criterio di accertamento della colpa per imperizia ormai abrogato gli effetti di depenalizzazione previsti dalla nuova disciplina.


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