Lavoro e professione

Sergio Bovenga (Fnom): «Garantire che l’investimento nella formazione frutti»

di Barbara Gobbi

La questione più urgente, e la più paradossale, è che già oggi abbiamo circa 9-10mila laureati all’anno con borse che sono circa 6mila. Quindi già oggi un 35-40% dei medici non può essere utilizzato perché non gli facciamo completare il percorso formativo. Questa è una situazione illogica innanzitutto sul fronte della programmazione, ma anche uno spreco di costi, visto che un laureato costa al sistema 250mila euro. Dopo che l’abbiamo formato, non gli consentiamo di fare la specializzazione o il corso in Medicina generale? Aumentare il numero degli accessi a Medicina ha senso solo se pareggiamo il bilancio formativo, facendo sì che tanti entrano a Medicina, tanti possono entrare nel percorso di specialità.

Il motivo qual è?
Non perché non siano necessari quegli specialisti o quei Mmg, ma perché non abbiamo i soldi necessari per le borse.

A vent’anni la situazione sarà la stessa?
Direi di sì, perché in realtà c’è una progressione scientifica, che si accompagna a una progressione tecnologica, per cui il set di competenze si eleva per tutti. Ciò vale per gli infermieri, ma certo anche per i medici. È tutto un sistema che cresce verso l’alto, poi certo la tecnologia può limare i fabbisogni. In ogni caso parliamo di aggiustamenti marginali.

Di fatto i fabbisogni non dovrebbe tener conto di queste proiezioni?
Sì ma vanno aggiunti due elementi di complessità: intanto, oggi parlare di fabbisogni e non tenere conto di quella che è o potrebbe essere l’evoluzione del sistema sanitario, significa lasciar fuori un’incognita piuttosto importante. Se il Ssn che conosciamo e che secondo me va difeso con le unghie e con i denti, regge, e non è detto, così com’è, è chiaro che parliamo di un certo standard di fabbisogni professionali. Questi ultimi però cambierebbero decisamente se per paradosso si passasse a un sistema totalmente privato, con un mercato quindi radicalmente mutato. Quindi bisogna tenere conto di come evolverà il sistema sanitario in questo Paese, e come cittadino e come professionista penso che vada difeso l’universalismo; inoltre, bisogna tenere conto della libera circolazione dei professionisti. Penso, a questo proposito, che la formazione universtaria dovrebbe diventare un volano dell’economia. Altrimenti rischiamo di esportare capitale umano già formato, rispetto a Paesi che possono anche scegliere di importare e selezionare laureati già formati. Secondo me dovremmo anzi mettere a disposizione professionisti già completamente formati, valorizzandone le competenze.

A che punto è il dialogo con Miur e Salute?
È chiaro che rispetto al problema degli specializzandi, con le istituzioni siamo perfettamente d’accordo. Il problema sono le risorse. Sul tappeto ci sono diverse proposte che coinvolgono le Regioni o anche l’Enpam con il cosiddetto prestito d’onore. Ma sono proposte che non risolvono il problema nei suoi macro numeri.

C’è anche il problema di riorientare gli studenti verso le specialità più richieste?
Assolutamente sì. Più affiniamo la nostra capacità di analisi, più le politiche di programmazioni saranno coerenti con la realtà professionale.

Quanti numeri vi servirebbero?
Non le do un numero ma un principio: occorre che chi si laurea in Medicina abbia la possibilità di completare il suo corso di studio. Tanto più dopo la selezione iniziale e i sei anni duri di Medicina.

La proposta delle Regioni sull’articolo 22 del Patto, come va guardata?
Dei cosiddetti ospedali d’insegnamento si parla da quando io stesso frequentavo l’Università. In parte e a macchia di leopardo qualcosa già c’è ma è un fenomeno ancora marginale nei numeri. Sicuramente può essere una soluzione, anche perché ormai la maggior parte delle casistiche viene fatta negli ospedali e non nelle università, dove il moltiplicarsi delle cattedre ha ridotto a numeri esigui i posti letto delle singole discipline accademiche. Ciò non vuol dire abbandonare gli studenti negli ospedali, ma prevedere che i percorsi si svolgano parte in ambito accademico, parte in ambito ospedaliero.


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