Lavoro e professione

Conoscere l’infertilità per curarla: formare nuove figure nella Pma

di Maurizio Zuccotti *

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24 Esclusivo per Sanità24

Mi piace ancora pensare che si debba far ricerca per rispondere a una o più curiosità. Questo forse per colpa o per merito di una scritta scolpita sopra il portone d'ingresso del settecentesco palazzo Botta, sede precedente del mio Dipartimento, che per anni ho letto tutte le mattine insieme a migliaia di altri studenti dell’Università di Pavia. La scritta, ovviamente in latino, è lì ancor oggi a suggerire: "Quid hic? Intueri naturam. Quo munere? Curiosum esse", "Perché sei qui? Per capire la Natura. Che cosa ti ripaga? L’essere curioso".
Mi piace anche pensare che sia stato proprio questo spirito di curiosità ad alimentare l’abate Lazzaro Spallanzani quando, alla fine del XVIII secolo, proprio a Pavia, eseguì le prime fecondazioni in provetta usando uova e spermatozoi di anfibio e riuscendo perfino nell’intento di far nascere cuccioli di cane con l’inseminazione artificiale. Cose allora mai viste e sicuramente motivo di tribolazione etica per Spallanzani, come testimoniato da un suo carteggio con colleghi scienziati dell’epoca. Condotti con strumenti rudimentali, quelli di Spallanzani erano esperimenti anticipatori di quella che oggi, due secoli dopo, chiamiamo riproduzione medicalmente assistita (Pma).
La transizione da una ricerca di base alle sue possibili applicazioni cliniche è avvenuta durante il secolo scorso, in un periodo straordinariamente ricco di scoperte che va dagli anni '50 agli ’80. I due protagonisti più significativi sono stati Ryuzo Yanagimachi (Yana per i suoi allievi) all’Università delle Hawaii negli Stati Uniti e Robert Edwards all’Università di Cambridge nel Regno Unito. È attraverso il lavoro di questi due pionieri e dei loro collaboratori che la ricerca di base e quella clinica si sono confrontate fino a fondersi in un legame indissolubile. Yana questo l’aveva capito bene già negli anni '60 quando pubblicò una serie di articoli che posero le basi per la fecondazione in vitro nei mammiferi e diede inizio alla rivoluzione che portò alla nascita di Louise Brown il 25 luglio 1978 a opera di Jean Purdy, Patrick Steptoe e Robert Edwards e alla assegnazione a quest'ultimo del premio Nobel 2010 per la medicina.
Gli studi di questi pionieri hanno consegnato all’umanità le conoscenze e gli strumenti tecnologici per provare a curare l’infertilità che, lo ricordiamo, è una malattia che affligge, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, il 15% delle coppie nel mondo e 60.000 nuove coppie all'anno in Italia; alle quali vanno aggiunti i pazienti oncologici, ad alto rischio di infertilità a causa dei trattamenti chemioterapici a cui si sottopongono, molto dannosi per la cellula uovo e lo spermatozoo (8.000 all'anno nella sola Italia).
Con la nascita della prima bambina grazie alla fecondazione in vitro sembrava che non ci fosse molto altro da scoprire, o almeno così ricordo di aver pensato io quando, giovane post-doc, mi affacciavo alla biologia della riproduzione. Ovviamente mi sbagliavo di grosso. Mi sbagliavo in generale, perché le nostre conoscenze della biologia degli esseri viventi, anche se sbandierate con tanto vanto, rimangono ancor oggi rudimentali; e mi sbagliavo nel particolare perché la riproduzione è, tra gli aspetti che caratterizzano la vita degli organismi, uno dei più sfuggevoli. Certo, sappiamo che milioni di spermatozoi risalgono le vie genitali femminili e che uno solo, dopo aver superato barriere selettive, penetra e feconda la cellula uovo. Ma ancora oggi, per quanto sorprendente possa apparire, rimane rarefatta la conoscenza del mondo infinitamente piccolo delle molecole che, nello spermatozoo e nella cellula uovo, sono coinvolte nel regolarne la genesi, la maturazione, l'interazione, la fecondazione e le successive fasi dello sviluppo embrionale. Tutti momenti durante i quali qualcosa può andare storto ed essere causa di infertilità. Un’infertilità che ad oggi può essere curata in circa il 30% dei casi, per ciclo di trattamento, lasciando amplio margine a un possibile miglioramento nell’efficacia di nuove strategie terapeutiche.
L’Università di Pavia e GeneraLife, un gruppo che conta oltre 30 cliniche in tutta Europa, hanno trovato una comunione di obiettivi investendo nella formazione post-laurea di nuove figure professionali capaci di affrontare queste nuove sfide. Istituire un Master in Biologia della riproduzione a Pavia ha per noi il significato di un ritorno là dove tutto è cominciato. Gli studenti troveranno un ambiente ideale per l’apprendimento potendo conoscere alcuni tra i migliori esperti internazionali, incontrare ricercatori che hanno fatto la storia della fecondazione in vitro ed esperti provenienti dalle aziende leader nel settore. Avranno modo di conoscere le tecniche e vedere all’opera gli strumenti più avanzati del nostro tempo per l’osservazione microscopica, la micromanipolazione, l’analisi molecolare e la traslazione digitale delle informazioni durante tirocini formativi presso l'Università, nei centri GeneraLife e nelle aziende partner. In questo contesto, curiosità e bisogno di cura, ricerca e applicazione clinica, continueranno a essere un binomio irrinunciabile in cui pubblico e privato giocano un ruolo sinergico nella formazione dei professionisti della procreazione medicalmente assistita del futuro.

* professore ordinario, dipartimento di Biologia e Biotecnologie - Università di Pavia


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