Lavoro e professione

Giustizia ordinaria e giustizia ordinistica in sanità, una "naturale dicotomia"

di Giuseppe Deleo *, Maddalena Giriodi **, Roberto Carlo Rossi ***

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24 Esclusivo per Sanità24

Le giustizie sono sempre due. Ma la seconda, in questo caso, non è quella divina: il confronto riguarda cioè la giustizia "ordinistica" e la giustizia "penale" nel campo medico. Un confronto che mostra due approcci fisiologicamente molto differenti, con la seconda che non sempre conferma e supporta la prima. Lo dimostra un’analisi su 70 esiti di procedimenti disciplinari di iscritti all’albo dell’Ordine dei medici di Milano che, nel quinquennio dal 2015 al 2019, sono stati in prima battuta oggetto di un procedimento penale. Si trattava di reati di tipo doloso con l’esercizio abusivo della professione, letto anche nel concorso del reato, che risulta il reato più frequentemente commesso (23 casi su 70). Si sono evidenziati inoltre reati peculiari tra cui truffa, diffamazione, guida sotto l’effetto dell’alcool e, tra i più gravi, omicidio volontario e violenza sessuale su minore. Su questi 70 casi esaminati solo in due la sentenza di condanna della giustizia penale risultava maggiore di due anni (per i reati di omicidio volontario e violenza sessuale su un minore). Molti sono stati gli esiti di sentenza di condanna con pena fino a due anni e sospensione della stessa (32 su 70). Sono emersi inoltre casi di assoluzione, di prescrizione e sentenza con solo pena pecuniaria (anche da conversione di pena detentiva). Questa è un’indagine comparativa importantissima, la prima nel suo genere, che, non a caso, vede la collaborazione diretta tra l’Ordine dei Medici e Odontoiatri di Milano e l’Istituto di Medicina Legale di Milano. Il lavoro frutto di questa comparazione ha dato vita a una tesi di specialità, discussa di recente presso l’Università di Milano, così realizzando un’analisi pioneristica in questo ambito.
I numeri emersi ci dicono che nella maggior parte dei casi gli effetti della sanzione penale sono modesti considerando che la pena pecuniaria laddove pagata estingue gli effetti del reato e che in caso di pena sospesa, trascorsi i termini di legge senza che la stessa venga revocata comporta parimenti l’estinzione del reato. Se per la Magistratura “ordinaria” non viene espiata la pena e il medico può continuare a svolgere la professione, il giudizio dell’Ordine può attraverso la sospensione e la radiazione impedire temporaneamente o definitivamente l’esercizio dell’attività professionale: effettivamente dai nostri dati emerge come in 41 casi su 70 l’esito del procedimento disciplinare ha portato a tale limitazione. Si rilevano quindi motivati discostamenti di giudizio per illeciti di non particolare rilevanza in ambito penale (con, appunto, maggior "severità" ordinistica rispetto a quella penalistica), ciò che appare intuitivamente appropriato stante il diverso peso dell’illecito deontologico a fronte di un reato che giuridicamente è di poco conto; i giudizi tornano via via a convergere man mano che l’illecito si fa più eclatante.
Dall’analisi dei dati emergono dunque due apparati sanzionatori che, pur ispirati da non divergenti principi di rettitudine tra loro intrinsecamente interconnessi, giungono non infrequentemente a differenti pronunce a motivo della loro inviolabile autonomia e delle diverse e precipue caratteristiche della norma penale e di quella deontologica. Diversa è la ratio sottesa ai due accertamenti, diversi sono i parametri assunti alla base delle rispettive valutazioni. In particolare, i due procedimenti sono tra loro strutturalmente indipendenti – caratteristica, questa, che influisce sull’autonomia anche dei rispettivi provvedimenti da essi scaturenti – in quanto trovano fondamento su due diversi principi di scelta normativa piuttosto che di istituto giuridico: l’una, quella del procedimento penale, mirante alla repressione di condotte contrarie al vivere civile che integrino una fattispecie considerata reato per l’ordinamento giuridico; l’altra, inerente al procedimento disciplinare, che tutela la qualità dell’atto medico e sorveglia sulla statura morale del professionista, anche e soprattutto in rapporto alla prestazione che viene erogata al cittadino, attraverso il rispetto di regole deontologiche di cui si dota la categoria professionale.
Certo è cosa nota che il medico, così come ormai tutti gli esercenti le professioni sanitarie, sia soggetto a una doppia giurisdizione; quella ordinaria, comune a tutti i cittadini, e quella specifica del proprio Ordine di appartenenza. Così come è noto che nel caso in cui il sanitario sia soggetto ad un procedimento penale si instauri un doppio giudizio: il primo in cui si applicano le comuni norme sostanziali e processuali e il secondo, invece, in cui hanno ingresso quelle di tipo ordinistico. Due giudizi, due valutazioni di fondamentale importanza per il medico.
Il momento dell’iscrizione all’albo professionale per un esercente la professione sanitaria ha molti significati, sicuramente delle conseguenze in termini giuridici amministrativi: da un lato il medico può da quel momento iniziare a svolgere la propria professione e dall’altro accetta implicitamente di essere sottoposto alle norme così come disciplinate del proprio codice deontologico. Operando questo automatismo si crea immediatamente l’obbligo del rispetto dello stesso.
Le norme del Codice di deontologia, in materia di responsabilità disciplinare, costituiscono mere esplicitazioni esemplificative dei principi generali contenuti nella legge istitutiva e nello stesso codice di deontologia, di dignità, di lealtà, di probità e di decoro professionale e, in quanto prive di ogni efficacia limitativa della portata di detti principi, sono inidonee a esaurire la tipologia delle violazioni disciplinarmente rilevanti. Queste ultime posso essere considerate come un insieme di norme comportamentali a cui il professionista iscritto a un Ordine si deve attenere; sono atti di soft-law, in quanto non promulgate da organi dello Stato bensì scelte e condivise da una determinata categoria. Ciononostante, possono prevedere aspetti sanzionatori con pesanti ricadute dirette sulla possibilità di svolgere la professione.
Inoltre, si sottolinea che le sanzioni disciplinari professionali pur avendo carattere amministrativo ed elementi comuni con le sanzioni amministrative (astrattezza, afflittività e intimidazione) e con quelle penali (personalità, imputabilità, irretroattività e proporzionalità alla gravità dell’infrazione) si differenziano per altri caratteri tipici ed esclusivi (la possibilità di essere irrogate solo in costanza di iscrizione all’albo, la non cumulabilità con altre sanzioni professionali, la relatività dell’immediatezza, la non convertibilità in valore economico o con pene sostitutive).
Per concludere relativamente a questa naturale dicotomia si riporta la chiarificatrice proposizione finale della richiamata tesi: «Dall’analisi dei dati emergono due apparati sanzionatori che, pur ispirati da non divergenti principi di rettitudine tra loro intrinsecamente interconnessi, giungono non infrequentemente a differenti pronunce a motivo della loro inviolabile autonomia e delle diverse e precipue caratteristiche della norma penale e di quella deontologica».

* medico-legale, Consigliere OmceoMi
** neo specialista in Medicina legale
*** Presidente OmceoMi


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