Lavoro e professione

«Per i medici di famiglia no alla dipendenza, ma obbligo di associarsi»

di Marzio Bartoloni (da Il Sole-24Ore)

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Dopo la pandemia il ruolo dei medici di famiglia va rivisto, ma non stravolto con ipotesi radicali come quello di trasformarli, come chiedono alcune Regioni, in dipendenti del Servizio sanitario (oggi sono infatti in libera professione convenzionata): una via dannosa questa sia per i pazienti che perderebbero il rapporto di fiducia con il proprio medico, ma anche per il Ssn che pagherebbe un conto troppo salato con l’Enpam, l'ente previdenziale dei camici bianchi, che andrebbe in default. Meglio invece prevedere forme di obbligo ad associarsi in modo che questi studi con più medici, personale e tecnologie garantiscano servizi e una reperibilità 12 ore al giorno e siano in grado di lavorare in collaborazione con le future case di comunità previste dal Pnrr che associate agli attuali distretti devono diventare i veri «hub» delle cure sul territorio.
Questa in estrema sintesi la ricetta contenuta in un nuovo studio di Mercer - società di consulenza nell'ambito delle risorse umane e degli investimenti - realizzato con il coordinamento dell'ex ministro del Wellfare Maurizio Sacconi e dedicato al «Medico di medicina generale nei nuovi servizi socio-sanitari territoriali». Un tema caldissimo dopo lo tsunami del Covid che ha travolto le cure sul territorio quelle mancate di più nei giorni drammatici delle prime ondate e che proprio in questi giorni sono al centro di un braccio di ferro tra il ministro della Salute Speranza e le Regioni divisi sul ruolo da assegnare nel prossimo futuro ai medici di famiglia.
Lo studio di Mercer, come detto, boccia innanzitutto l’ipotesi di trasformare gli oltre 40mila medici di famiglia in dipendenti perché gli effetti sarebbero dannosi in termini di diminuzione dell'assistenza al paziente, flessibilità organizzativa e maggiori costi, senza contare le rigidità contrattuali e di legge (ferie, permessi, assenze e sostituzioni) che determinano orari di reperibilità più limitati.
«La crisi pandemica ha mostrato la fragilità dei servizi territoriali, da qui gli investimenti nel Pnrr in case e ospedali di comunità . Ora c'è il rischio che questi investimenti inducano una definizione di servizi troppo barocca con la distinzione tra distretti e case di comunità hub da individuare sotto i distretti e poi case di comunità spoke, quindi tre livelli con cui dovrebbero dialogare i pazienti e gli stessi medici di famiglia», avverte Maurizio Sacconi. Che invece sottolinea l’esigenza che ci sia più semplicità con solo due livelli essenziali di assistenza sul territorio: «Uno hub dove possono coincidere distretti e nuove case di comunità calcolati per popolazioni variabili in base ai bisogni e al tipo di territorio, dalle metropoli alle zone meno abitate, e poi i medici di famiglia associati come servizio spoke». Ma qui lo studio di Mercer arriva al punto più importante mettendo “sotto accusa” la convenzione attuale che non fa «distinguere i migliori medici dai peggiori, ma li nasconde entrambi», sottolinea Sacconi. Non solo: la convenzione non consente di distinguere anche dal punto di vista della remunerazione perché è concentrata troppo sulla quota capitaria fissa, «invece bisogna puntare sul dare più responsabilità ai medici di famiglia pagandoli anche in base ai risultati e agli obiettivi di salute che vanno monitorati e verificati e soprattutto incoraggiando e imponendo l’evoluzione della libera professione convenzionata verso gli studi associati con tutti i requisiti oggettivi del caso». L'ex ministro del Welfare cita in particolare la legge del 2011 sulle società tra professionisti ordinisitici, nata per evitare che settori così delicati come quello della salute finiscano nelle mani delle società di capitali: «Questa può essere una forma, ma ce ne possono essere altre l'importante è che si arrivi a studi attrezzati per fare prime diagnosi con micro team a supporto dei medici e tecnologie anche per praticare il monitoraggio da remoto dei pazienti soprattutto quelli cronici e con la reperibilità per 12 ore che non deve essere per forza fisica, sennò si cade in una logica miope e antica legata agli orari che non consente quella prossimità al paziente che è richiesta». E il rapporto con le case di comunità? «Ci deve essere una relazione continua e non solo fisica. Il medico di famiglia può accompagnare il proprio assistito nella casa di comunità per una visita specialistica e a sua volta può assicurare un debito orario dentro la casa per consentire che questa offra servizi effettivi 24 ore al giorno».


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