Lavoro e professione

Intramuraria/ La complessa questione della determinazione delle tariffe

di Stefano Simonetti

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24 Esclusivo per Sanità24

Alcuni giorni fa su questo sito è stata data notizia di una recente decisione della Cassazione che torna sulla questione del ribaltamento dell’Irap sulle tariffe della libera professionale intramuraria (Alpi) svolta dai dirigenti sanitari dipendenti delle aziende ed enti del Servizio sanitario. L’articolo di commento ha segnalato correttamente e in modo lineare i contenuti della pronuncia che, tuttavia, deve essere contestualizzata perché la vertenza si riferisce a un periodo molto lontano (prima del 2007), precedente ad alcuni interventi legislativi (le modifiche apportate dalla legge 189/2013, la cosiddetta "legge Balduzzi") e, soprattutto, perché vanno tenute presenti le modalità e il percorso di perfezionamento della contrattazione integrativa aziendale (l’istituto della auto definizione disciplinato dal Ccnl del 2019). In buona sostanza, dall’ordinanza in commento si ricava senz’altro che in "quella" vertenza l’azienda sanitaria ha sbagliato ma alle conclusioni della Suprema Corte non consegue che, in termini assoluti, all’azienda sanitaria sia interdetta la possibilità di recuperare gli importi dell’Irap, come tutti gli altri costi. Una cosa è adottare un atto unilaterale al di fuori del percorso negoziale e tutt’altra è ritenere che l’azienda sia soggetta ad un potere di veto da parte delle organizzazioni sindacali nella determinazione delle tariffe. Una ricostruzione sistemica e completa della problematica può essere utile.
L’ordinanza della Cassazione civile, sez. lav., n. 8779 del 17.3.2022 ha ritenuto necessario che il tariffario rifletta l'accordo con i professionisti coinvolti nell'attività libero-professionale intramuraria, dovendosi ritenere - alla stregua della chiara formulazione della norma - che, in materia di remunerazione e trattamento economico di tale attività, non siano consentite determinazioni unilaterali da parte dell'azienda datrice di lavoro.
La vicenda riguarda un gruppo di medici di una azienda ospedaliera lombarda che avevano presentato ricorso contro la determinazione datoriale di ribaltare sulla tariffa l’onere dell’Irap. Il Giudice del lavoro aveva inizialmente dato loro ragione ma la Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha ritenuto fondate le domande fino al 19 dicembre 2007 ma non più - alla luce del mutato quadro legislativo (I. 3 agosto 2007, n. 120) e delle vicende che ne erano seguite nei rapporti fra i medici e l'Azienda Ospedaliera - per il periodo successivo a tale data, a decorrere dalla quale ha, quindi, accertato il diritto dell'Azienda a trattenere l'imposta, pari all'8,5%, dalle somme spettanti agli appellati per l'attività libero-professionale in regime di intramoenia. Ora la Cassazione ha ritenuto che la deliberazione del Direttore generale fosse stata adottata “in difetto di accordo con i singoli professionisti” e che la Corte territoriale erroneamente ha considerato "pienamente raggiunta la prova dell’intesa tra azienda e professionista anche sulla traslazione dell'imposta Irap". Di conseguenza, la sentenza di appello è stata annullata e rinviata ad altra corte territoriale. Le conclusioni meritano un approfondimento perché sono strettamente collegate alla normativa vigente al momento della instaurazione del contenzioso mentre attualmente il quadro normativo di riferimento è profondamente mutato. Va infatti ricordato che la vertenza in parola inizia nel 2005 e la stessa sentenza del Tribunale in primo grado è anteriore all’entrata in vigore della legge 189/2012 che ha modificato la disposizione legislativa che disciplina le tariffe. Per comprendere quale sia l’impatto della pronuncia sulla odierna situazione delle tariffe dell’Alpi e come essa esplichi i suoi effetti su situazioni pregresse e chiuse, può essere utile riassumere le vicende relative alla definizione delle tariffe. Innanzitutto è necessario raffrontare le due norme legislative succedutesi nel tempo, la prima vigente all’apertura della vertenza e sulla quale si sono pronunciati i giudici e la seconda in vigore dal settembre 2012:
• art. 1, comma 4, della legge 120/2007, testo “originario” =
c) determinazione, in accordo con i professionisti, di un tariffario idoneo ad assicurare...
•art. 1, comma 4, come sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera e) della legge 189/2012 =
c) definizione, d'intesa con i dirigenti interessati, previo accordo in sede di contrattazione integrativa aziendale, di importi da corrispondere a cura dell'assistito, idonei, per ogni prestazione, a remunerare…
Nella norma più recente la questione viene espressamente rinviata alla contrattazione collettiva integrativa, naturalmente secondo le regole della medesima così come fissate dai Ccnl vigenti nel tempo (art. 4, comma 2, lettera G, del Ccnl dell’8.6.2000 e art. 7, comma 5, lettera d, del Ccnl del 19.12.2019). Dunque, la fonte regolatrice degli elementi che compongono la tariffa è solo il contratto integrativo e la “intesa con i dirigenti interessati” non può che riferirsi al compenso da loro richiesto. I principi sanciti dalla Cassazione fanno invece riferimento soltanto al “difetto di accordo con i singoli professionisti” e viene del tutto ignorato il passaggio della contrattazione aziendale. Poiché è impensabile che la Suprema Corte abbia preso un tale abbaglio, l’unica spiegazione è che i giudici si sono attenuti rigorosamente alle norme vigenti prima del 2012. Proviamo a riassumere cosa è successo dopo.
La legge Balduzzi (decreto legge 13 settembre 2012, n. 158, modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189 ) ha provveduto a disciplinare i nuovi studi in rete e ha introdotto alcuni importanti vincoli quali la completa tracciabilità di tutta la gestione, dalla prenotazione al pagamento. La legge, peraltro, ha ribadito un principio già presente nella legge Turco del 2007 e cioè che la tariffa deve remunerare la copertura integrale di tutti i costi diretti ed indiretti della libera professione. Un aspetto che la legge 189 non ha toccato è quello della tipologia di tali costi quando è di tutta evidenza che una delle maggiori criticità della costruzione della tariffa è proprio quella della declinazione dei costi e la loro quantificazione.
In questo scenario si inserisce prepotentemente la annosa e diffusa questione dell’Irap ovvero del ribaltamento dell’imposta sull’ importo finale della tariffa. Una sentenza della Corte di Cassazione del 2012 sembrava aver chiarito gli aspetti generali di tale operazione. Occorre però fare un approfondimento perché la massima della Cassazione non è esattamente nella direzione che intendono i diretti interessati e i sindacati che li rappresentano. Nel caso oggetto del ricorso, l’azienda sanitaria aveva provveduto a ribaltare l’importo dell’Irap sul costo finale della tariffa senza però che tale circostanza risultasse dal Regolamento aziendale. La Corte d’appello e successivamente la Cassazione hanno però stabilito che l’operazione è fattibile solo a condizione che risulti in modo esplicito e trasparente dall’Atto aziendale sull’Alpi la volontà di ribaltare il costo dell’imposta sulla tariffa. Nella fattispecie della pronuncia i medici avevano sottoscritto una modulistica ma da essa non risultava in maniera inequivocabile che la tariffa comprendesse anche il recupero dell’Irap, anche perché gli stessi moduli facevano rinvio diretto al Regolamento aziendale dove questo passaggio era inesistente. Quindi motivi del tutto formali e procedurali hanno portato alla decisione dei giudici mentre, sul piano sostanziale, resta impregiudicata la possibilità di ribaltare gli oneri finanziari dell’imposta. È necessario a questo punto fare un passo indietro. L’Irap è un imposta il cui soggetto passivo è il datore di lavoro per cui non è in dubbio che sia a carico dell’Azienda sanitaria ed essa soltanto abbia l’onere di versarla all’erario. Ma è altrettanto fuori discussione che gli importi costituenti l’imposta possono essere considerati fattori di costo della produzione e pertanto trasferiti sul prezzo finale. In tal senso la Corte Costituzionale con la sentenza n. 156 del 21 maggio 2001 ha affermato che «… come si verifica per qualsiasi altro costo (anche di carattere fiscale) gravante sulla produzione, l’onere economico dell’imposta potrà essere infatti trasferito sul prezzo dei beni o servizi prodotti, secondo le leggi del mercato, o essere totalmente o parzialmente recuperato attraverso opportune scelte organizzative …». Per fare ciò occorre – secondo l’insegnamento della Suprema Corte – la consapevolezza da parte dei medici che svolgono la libera professione mediante la previsione nell’”apposito atto” di cui all’art. 54, comma 1 del Ccnl dell’8.6.2000 e il conseguente contratto che ciascuno dei medici interessati stipula con l’Azienda. I sindacati medici questo lo sanno benissimo tanto è vero che le informative diramate dopo l’emanazione della sentenza 8533/2012 hanno trionfalmente affermato che è illegittima la trattenuta Irap da parte delle aziende, invitando tutti i medici loro iscritti a chiederne la restituzione. Gli stessi sindacati hanno tuttavia riconosciuto che esiste la possibilità di una traslazione dell’importo dell’imposta sulla tariffa ma a condizione che venga preventivamente concordata con i sindacati e successivamente recepita nel Regolamento aziendale. Come si vede, è lo stesso meccanismo delineato dalla Cassazione con l’aggiunta, logica e coerente, del passaggio in contrattazione integrativa (anche se loro utilizzato il generico termine “concordata”). Il messaggio è chiaro: perché possa ritenersi legittima la trattenuta essa deve essere accettata formalmente dai sindacati – che in questo caso rappresentano in tutti i sensi i diretti interessati - e poi espressamente menzionata nel Regolamento. Quello che non dicono – ma ovviamente sottintendono – è che basta non firmare l’accordo aziendale per bloccare l’operazione ribaltamento. Questa tattica è fondata sul presupposto dell’esistenza di un sostanziale potere di veto dei sindacati sulla materia. Questo presupposto è invece del tutto inesistente. L’attuale scenario postula la piena legittimità di due contrapposte posizioni: da una parte le OO.SS. mediche che vogliono naturalmente evitare aggravio di costi sulla tariffa finale e dall’altra quella delle aziende che devono necessariamente recuperare tutti i costi diretti e indiretti perché – è bene ricordare che lo impone la legge – dalla gestione della libera professione non può conseguire neanche un euro di passivo per il Ssn, anzi dovrebbe realizzarsi un minimo di utile. Quello che non è consentito dalla vigente legislazione ai sindacati è di imporre alle aziende sanitarie con lo strumento della mancata firma sull’accordo di subire una passività che costituirebbe inevitabilmente danno erariale. Orbene, il potere di veto non sussiste e non soltanto perché le norme del decreto 150/2012 hanno introdotto la possibilità di autodefinizione in via provvisoria di aspetti di contrattazione collettiva (art. 54 che novella il decreto 165 introducendo un comma 3-ter nell’art. 40, norma ora sistematizzata e contingentata dall’art. 8 del Ccnl del 19.12.2019) ma soprattutto perché anche prima del decreto Brunetta la materia in questione consentiva all’azienda di poter andare avanti unilateralmente, una volta constatata la materiale impossibilità di giungere ad un accordo: basta leggere attentamente la clausola contrattuale del 2000 (la lettera G del comma 2 dell’art. 4 alla luce del successivo comma 3, divenuta oggi la lettera d del comma 5 dell’art. 7 del vigente Ccnl) e verificare come la materia specifica dell’Alpi rientra proprio tra i punti per i quali è prevista dopo 30 giorni una sorta di “liberatoria” in caso di stallo nella ricerca del consenso. Tra l’altro, qualora si volesse ritenere in ogni caso sussistente il potere di veto, la conseguenza è che la negoziazione dovrebbe proseguire all’infinito essendo impossibile pensare che l’Azienda debba essere addirittura obbligata a fare quello che dicono i sindacati. E, nelle more della definizione dell’accordo, il Regolamento sull’Alpi non potrebbe essere adottato e, quindi, l’esercizio della libera professione rimarrebbe inevitabilmente sospeso. Ricordo che nel nostro ordinamento giuridico in tema di contrattazione collettiva permane il fondamentale principio che contrattare è obbligatorio e che concludere l’accordo assolutamente no, visto che il consenso presume la reciproca convenienza e ci sono meccanismi per consentire alle parti di riassumere “le rispettive prerogative e libertà di iniziativa e di decisione”. Pertanto lo schema per la corretta definizione delle tariffe dell’Alpi è il seguente: negoziazione con le OO.SS dei criteri generali – stipula del contratto integrativo ovvero presa d’atto della mancata conclusione del contratto nel rispetto delle clausole del Ccnl – recepimento dei criteri nel Regolamento aziendale – richiesta a ciascun medico di indicare il proprio onorario (o compenso, che dirsi voglia) – costruzione della tariffa aggiungendo all’onorario in senso montante tutti i costi diretti e indiretti – pubblicizzazione all’utenza delle tariffe – rinegoziazione dell’onorario con cadenza annua. Ma tale scenario è quello odierno, mentre per i fatti risalenti all’epoca dell’instaurazione del contenzioso nella Azienda lombarda la situazione era diversa.


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