Lavoro e professione

Pensioni/ La riforma Fornero, il futuro previdenziale e la necessità di mantenere in piedi il sistema previdenziale

di Claudio Testuzza

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24 Esclusivo per Sanità24

La legge Fornero, o meglio la riforma delle pensioni Fornero, corrisponde all’articolo 24 del decreto legge n.201 ( emanato il 6 dicembre 2011 ). Il nome deriva da quello dell’allora ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Elsa Fornero, che ha modificato il funzionamento del sistema pensionistico italiano emanando le cosiddette "Disposizioni in materia di trattamenti pensionistici". Prima della legge Fornero era in vigore la riforma Dini, datata 1995. Poi, a seguito della manovra Salva-Italia varata dal Governo Monti per contrastare la recessione degli Usa causata dai subprime, e su pressioni dell’Unione Europea che chiedeva all’Italia di intervenire a ridurre il grande deficit che l’aveva colpita negli ultimi anni, si rese necessario intervenire sulla messa in sicurezza dei conti e in particolare sulla sostenibilità a lungo termine del sistema previdenziale. In effetti il sistema, imperniato soprattutto sull’Inps, che peraltro aveva assorbito l’Inpdap, l’istituto previdenziale dei dipendenti pubblici andato in pochi anni in default, procedeva con sistematici disavanzi suppliti da ampi interventi dello Stato.
Infatti la legge di riforma Dini aveva già modificato il sistema del calcolo pensionistico, da retributivo, molto favorevole perché collegato agli stipendi dei richiedenti la pensione, al meno vantaggioso sistema contributivo, che fa riferimento agli effettivi contributi prodotti durante tutta la vita lavorativa, ma aveva mantenuto il contributivo per tutti coloro che avessero maturato almeno diciotto anni di contributi al 31 dicembre 1995 e pro quota a chi ne avesse avuto anche di meno. La legge Fornero drasticamente annullava dal 2012 questi vantaggi, pur mantenendo il maggior favore per i periodi antecedenti. Ma se questo intervento, pur con le lagnanze degli interessati, era stato assorbito dai partiti della maggioranza e anche dai sindacati, quello che aveva, e ha tuttora, un fronte di resistenza è stato il drastico intervento sulle età pensionistiche. Fermo alle cosiddette "quote". Fino al 31 dicembre 2011 era richiesta la quota 96, che diventava 97 per gli autonomi. Per quota si intende la somma di età anagrafica e anzianità contributiva. I lavoratori dipendenti potevano quindi ottenere il diritto alla pensione di anzianità con almeno 61 anni di età e 35 di contributi ( 61+35=96 ) oppure con 60 e 36 ( 60+36=96 ). Per gli autonomi l’età doveva essere più alta di un anno ( 61+36 oppure 62+35 ). Mentre il pensionamento di vecchiaia era previsto a 65 anni d’età ovvero con almeno 40 anni di contributi.
La legge Fornero sconvolgeva questi parametri portando l’età per la vecchiaia a 67 anni e l’anticipata (anzianità) a 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 e 10 mesi per le donne. Tutti, peraltro collegati alla "speranza di vita" che ne innalzava i valori in maniera incontrollata facendo solamente riferimento all’età di sopravvivenza dei cittadini. Da quel momento si è avuta una sequela di interventi legislativi per cercare di ridurre l’impatto di queste norme con l’introduzione del riconoscimento delle attività usuranti, l’ape sociale, l’opzione donna, sino ad arrivare alla Quota 100 (62 anni e 38 di contributi) e 102 (64 anni e 38 di contributi). Ultimamente, soprattutto in fase preelettorale, è diventato un obbiettivo l’uscita anticipata possibile con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età. Una soluzione che piace anche ai sindacati, fermamente contrari al ritorno in versione integrale dei requisiti di pensionamento fissati dal governo Monti e dalla legge Fornero e che sarà l’argomento principale nella stesura della prossima legge di bilancio.
Ma c’è un ostacolo non da poco da superare: l’impatto di queste misure sui conti previdenziali, da sempre sotto l’attenta osservazione di Bruxelles. E non solo per il costo di questa opzione: 4 miliardi il primo anno secondo l’Inps, non più di 1,3-1,4 miliardi per il Carroccio e i sindacati considerando una percentuale di adesioni simile a quelle registrata per Quota 100 (circa il 40%). Nel suo ultimo rapporto sulla previdenza la Ragioneria generale dello Stato ha fatto notare che gli interventi di riforma varati dal 2004 hanno generato una riduzione dell'incidenza della spesa pensionistica in rapporto al Pil pari a circa 60 punti percentuali cumulati al 2060. Di questi - si sottolinea - circa un terzo è dovuto agli interventi previsti proprio con la riforma del 2011.
Il messaggio è abbastanza chiaro: rispetto alle regole fissate dalla riforma varata dal governo Monti non si può tornare indietro, a meno di non mettere a repentaglio la solidità dell’impalcatura contabile su cui poggia il sistema previdenziale. Ed è quello che a più riprese aveva sostanzialmente lasciato intendere Mario Draghi a Cgil, Cisl e Uil aprendo alla possibilità di introdurre forme flessibili di uscita ma rimanendo rigidamente nel solco del metodo contributivo e senza appesantire la spesa.
I sindacati e la Lega restano, però, convinti della bontà delle loro posizioni. Il problema, dopo che con lo scioglimento delle Camere il lavoro sul dossier pensioni è rimasto insoluto, viene rimandato tutto al nuovo Esecutivo che si troverà, anche, ad affrontare il recupero inflazionistico al momento della perequazione delle pensioni.


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