Lavoro e professione

Previdenza, necessaria una riforma organica per i giovani di "quota zero"

di Claudio Testuzza

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24 Esclusivo per Sanità24

I giovani di “quota zero” sono coloro che hanno iniziato a lavorare dopo il 1996, la cui pensione, secondo il sistema attuale, sarà quindi interamente calcolata in base al sistema contributivo, senza alcun tipo di integrazione.
Inoltre i nuovi lavoratori verseranno contributi spesso discontinui ed anche bassi. Ma dovranno continuare a farlo, se iniziano a lavorare tardi, almeno fino ai 67 anni, ma sicuramente per molto di più, visto l’ aumento dell’aspettativa di vita, per ritrovarsi poi con una pensione mensile che varrà meno della metà dell’ultimo stipendio percepito. Negli ultimi anni, l’età del pensionamento è rimasta invariata a 67 anni, solamente perché il Covid ha abbassato l’aspettativa di vita degli italiani. Un dato assolutamente contrapposto al trend degli ultimi 7 decenni. Ignorare il problema dei “quota zero”, come è avvenuto finora, significa condannare una generazione di lavoratori, speso precari, ad una vecchiaia estremamente vicina alla soglia di povertà.
D’altronde, per quando i ventenni di oggi andranno in pensione, i legislatori di oggi saranno ormai un ricordo lontano. La questione per il momento non è, quindi, nell’agenda di nessuno. Una vera soluzione al problema della pensione non può aversi fino ad una profonda e radicale riforma tanto del sistema pensionistico quanto di quello contrattuale.
Intanto appare indispensabile equiparare la condizione dei contributivi puri, che la riforma Fornero ha molto svantaggiato, con quella degli altri lavoratori, eliminando i vincoli di accesso alla pensione pari a 2,8 volte l’assegno sociale per la pensione anticipata e di 1,5 volte per la vecchiaia e, di riflesso, così riducendo anche il rischio di aumentare da 67 anni a 71 anni l’età di pensionamento. Considerando, poi, che il metodo contributivo non contempla un'integrazione al trattamento minimo, di cui oggi beneficia circa il 25 % dei pensionati (tra integrazione e maggiorazione sociale) e le cui pensioni attuali sono pagate proprio dai contributi di questi lavoratori, per motivi di equità intergenerazionale occorrerebbe prevederla anche per “contributivi puri”, quanto meno su valori pari all’integrazione al minimo già prevista per le altre categorie di pensionati o alla maggiorazione sociale e calcolati maggiorando la pensione a calcolo in base al numero di anni effettivamente lavorati. In pratica andare verso un scelta di un’età flessibile all’interno di un range, con un ovvio aggiustamento degli importi annuali per tener conto del numero di anni, maggiori o minori, che restano, come previsto inizialmente dalla riforma Dini del 1995.
Ma rimane , comunque, la grande questione della sostenibilità della spesa pensionistica. Spesa che raggiungerà nel 2023 il 16,1 % del Pil e con la possibilità di passare dall’attuale rapporto pensionati/lavoratori di un 3 a 2 ad uno schema di 1 ad 1. Dato, apparentemente, già raggiunto se si pensa che esistono 22,7 milioni di pensioni in pagamento rispetto ai 22,5 milioni di lavoratori, dipendenti ed autonomi.
In verità il confronto è fatto sul numero complessivo di pensioni attribuite ( una o più per pensionato ) e non sul numero dei beneficiari che rimangono ancora in circa 16 milioni. Ma questo lieve “respiro” si ridurrà in pochi anni e sarà, allora, veramente preoccupante.
Altro dato da rilevare, con decisione, è che nel computo della spesa pensionistica di oltre 300 miliardi è compresa una quasi metà, 144 miliardi, di spesa assistenziale, in gran parte non coperta dai contributi versati dai lavoratori.
Appare, pertanto, assolutamente inconcepibile che in questi giorni non si sia mai parlato di come rafforzare la previdenza integrativa. Il vero ed unico baluardo per poter credere di alleviare il futuro pensionistico soprattutto dei giovani. Con il secondo pilastro ( fondi negoziali chiusi ) ed anche con il terzo pilastro ovvero i fondi negoziali aperti ( Pip, piani pensionistici individuali ), l’entità della posizione individuale dipende dalla contribuzione versata, consistente per lo più nel conferimento del TFR a cui aggiungere un altro contributo del sottoscrittore e in molti casi ( dipendenti pubblici ) anche da parte del datore di lavoro. E’ un mix che consente investimenti che nel tempo possono dare ai fondi una redditività ragguardevole. Necessita, questo campo, di interventi legislativi idonei a favorire l’adesione dei lavoratori come un sistema fiscale più vantaggioso dell’attuale, con la fruizione dei vantaggi della stessa contribuzione su più anni d’imposta , ed una deduzione più ampia, dei 5.164 euro oggi previsti, con un meccanismo moltiplicatore della deducibilità dei contributi per le fasce sociali a più basso reddito. Per i primi anni di adesione lo Stato potrebbe, poi, versare dei contributi ( 1 % dello stipendio ) nelle diverse forma di previdenza. Anche il datore di lavoro, sempre nei primi anni di adesione ad un Fondo, potrebbe versare un contributo doppio di quello stabilito contrattualmente. E perché non prevedere una deduzione, oltre i 5.164 euro, dall’imponibile dei genitori di quanto eventualmente versato nel fondo pensione dei propri figli dalla culla fino ai 18 anni ?
Infine sarebbe opportuno il pareggiamento della fiscalità della previdenza integrativa a quella europea. Negli altri paesi, al contrario del nostro, non si tassa in fase di maturazione del capitale, ma solo alla fine, quando si riscatta il capitale o si comincia a godere dell’integrazione.


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