Medicina e ricerca

Vecchiaia tra cura e sapienza

di Donatella Lippi (Storia della Medicina, Università di Firenze)

Matusalemme, uno dei patriarchi antidiluviani dell’Antico Testamento, figlio di Enoch e padre di Lamech, visse fino a 969 anni. Platone, a 90 anni, filosofeggiava ancora nell’Accademia; Goethe, a 92 anni, terminava il Faust; Tiziano, a 99 anni, «dipingeva ancora quadri stupendi». «E Michelangelo ottuagenario, che fino alla morte merita il battesimo di divino». E, ancora, Voltaire, Lafontaine, Lesage… Sono questi alcuni degli esempi ricordati dall’antropologo Paolo Mantegazza nel suo libro «Elogio della vecchiaia» (1895): una lista, realizzata in un’epoca in cui la speranza di vita alla nascita era ben inferiore a quella di oggi, dalla quale erano esclusi i vecchi o vecchissimi anonimi e dimenticati dalla storia, partecipi di una condizione che, da sempre, è stata vissuta come sfavorevole e avversa.

Anche nel mondo classico, la vecchiaia maschile si nobilita solo attraverso una riflessione complessa: la vecchiaia è una voce di uomo, di un uomo ormai così cadente da aver perduto quasi completamente la corporeità ed essersi ridotto a un fioco lamento, che giunge dal chiuso di una stanza. È la voce di Titono, un tempo giovane bellissimo, che la dea Aurora amò al punto da ottenere la sua immortalità, dimenticandosi, però, di chiedere per lui una giovinezza perenne. E così, col passare del tempo, Titono aveva perso ogni fascino, tanto che la dea lo aveva confinato al di là delle porte chiuse del thàlamos, dove avevano consumato il loro amore. Per lenire la sofferenza e la tristezza della vecchiaia, Cicerone proponeva la via di fuga della consolazione, evocando la figura di un grande e già quasi leggendario senex, Catone il Censore: il segreto per vivere una vecchiaia serena è quello di mantenersi attivi e di fingere che la vecchiaia non sia mai arrivata, compensando i capelli grigi e la debolezza con la saggezza e l’esperienza. È come un gioco di specchi, in cui la scena del presente si proietta all’indietro, nel mondo dei maiores, e l’esempio del vecchio come maestro di vita e modello per i giovani acquista prestigio e considerazione per il fatto stesso di incarnare un valore tradizionale, lasciato in eredità dalle generazioni precedenti: da qui, l’autorità della Gerousìa e del Senatus.

Da questo approccio, in cui si recupera una dimensione positiva, erano escluse le donne. L’aforisma che lega l’acquisizione del sapere al passare del tempo («invecchio senza mai smettere di imparare») era, infatti, valido solo per gli uomini: la donna vecchia, invece, porta iscritto il suo destino nel suo stesso nome, anus come anous «priva di senno», in una beffa etimologica che stigmatizza la cifra più autentica della sua identità: «anus dicta est […] quod iam sit sine sensu, quod Grece dicitur anous». Dalla più nobile ideologia della vecchiaia in età classica, che è quella di Seneca, alla concezione di questo evento umano che lega la decadenza di ciò che è corporeo al segno tangibile del peccato: i vecchi sono, nell’antropologia medievale, coloro nei quali gli effetti del peccato maggiormente si accumulano. La stragrande maggioranza dei vecchi poveri, ove non sia aiutata dalla solidale assistenza della famiglia o del vicinato, appartiene alla storia della povertà. Pauperes infirmi, poveri malati e malati poveri, senza troppa distinzione tra l’indigenza economica e l’emergenza sanitaria, ivi inclusi storpi e vagabondi, ciechi e mendicanti, folli e pezzenti, orfani e vecchi, popolavano le stesse strutture.

Nel Rinascimento, la società del cosiddetto «capitalismo precoce», che guarda al futuro, richiede una popolazione fatta di soggetti produttivi e la vecchiaia è ancora un disvalore. Scrive Thomas More nella sua Utopia: «Restava solo più da provvedere con pubblico intervento a quanti fossero ridotti in miseria dalle malattie o dalla vecchiaia….ebbene io dispongo con apposita legge che tutti questi mendicanti vengano distribuiti e assegnati ai conventi».

Vecchiaia come non produttività, vecchiaia come peso sociale: l’uscita dell’adulto dalla vita lavorativa, per il venir meno della vigoria fisica e della vigilanza mentale, non indicava affatto, tra Medioevo e Rinascimento, l’ingresso nella categoria dei «vecchi assistiti», ma, per chi era privo di assistenza familiare, significava il ristagno nell’indifferenziata massa dei poveri. L’appartenenza dei vecchi alla moltitudine amorfa dei poveri comportava, quali uniche misure in qualche modo correttive dell’emarginazione e dello sbando sociale, l’elemosina elargita e l’operosa pietà, attraverso una rete di «Pia loca», che avevano come scopo l’attuazione della caritas. Senectus ipsa morbus est: la vecchiaia è un male incurabile, per cui, per i vecchi, la carità non era sollecitata a farsi curativa. Prendersi cura dei vecchi era una pratica stagnante, demotivata a evolversi, confinata nei modi caritativi tradizionali e, dove la carità faceva difetto, la cura mancata lasciava il posto all’incuria e l’assistenza si trasformava in controllo distante.

Nel tardo Cinquecento, le nuove Confraternite, come i Fatebenfratelli di Giovanni di Dio e i «ministri degli infermi» di Camillo de’ Lellis rappresentarono un’esperienza importante, ma il vecchio, malato di una malattia acuta, rientrerà ancora a lungo nella categoria del paziente medico o chirurgico; nel semplice concetto di «vecchio» resteranno compresi i cronici, i lungodegenti, i non autosufficienti. Il pauperismo, inoltre, alla cui dimensione sei-settecentesca contribuivano peraltro molti vecchi, diventava, da fenomeno congiunturale legato alle crisi di sussistenza e sopravvivenza periodiche, un fenomeno strutturale, legato alle trasformazioni economiche della società: da una libera o interessata volontà di carità e di cura, si passa a una meccanica necessità di controllo e di governo.

Nella nuova categoria sociale dei devianti, i vecchi non autosufficienti e accattoni costituivano una quota numericamente rimarchevole, una presenza che da fisiologica si era fatta esuberante. E se, per gli orfani, esistevano apposite strutture, per i vecchi della città e del contado, immersi e dispersi nella indifferenziata massa dei poveri, non esistevano istituti che non fossero quelli promiscui della pietà e dell’ospitalità date a tutti.

Solo lo sguardo attento del riformatore illuminista realizzerà dei luoghi in cui la povertà, vista come condizione da cui si doveva uscire attraverso il lavoro, diventa oggetto di un atteggiamento più neutro. Nascono, così, le Case di lavoro, finalizzate a contenere il pauperismo dilagante: a Firenze Montedomini, a Milano il Pio Albergo de’ poveri impotenti per età o per difetto corporale. La polizia medica è medicina politica e arte di difesa, strumento contro le malattie sociali provocate dall’abbandono, da parte dell’uomo, dello stato di natura, prevenzione aggiunta alla terapia nella cura dell’uomo sano-malato, un’arte della cura fatta di cibo sufficiente, vestiario adatto, dimore abitabili, provvidenza evoluta in previdenza. Nel Pio Albergo, fondato nel 1767 nel palazzo avito dei Trivulzio in contrada della Signora, tra il Naviglio e il Laghetto, dei primi 150 ricoverati (77 uomini e 73 donne), solo 36 (13 uomini e 23 donne) erano classificati come «vecchi». Gli uomini erano «vecchi e in parte acciaccati» e le donne «vecchie e in parte cagionevoli». Tarengo Giovanni aveva 95 anni e 102 ne aveva Sartirana Margherita…in un caravanserraglio di disgrazie.

Ma come si applicava ai vecchi l’arte della cura? Chi erano i medici, i geriatri ante litteram? In realtà, l’assistenza agli anziani, come categoria destinataria di cure specifiche, si sviluppa proprio in questo periodo, a partire dagli Stati Uniti d’America, dove da tempo si lavorava per disegnare la tipologia dell’assistenza nei confronti dei pazienti anziani, autosufficienti, cronici o lungodegenti. Dopo che, nel 1909, il medico viennese naturalizzato americano, Nasher aveva creato il termine «geriatria», fondando a New York l’omonima società di specialisti, nel 1945 era stata fondata la Società di gerontologia, finalizzata non solo allo studio delle malattie senili, ma alla fisiologia dell’invecchiamento; nel 1950, la stessa cosa è successa in Italia, unendo ai recenti sviluppi della ragione scientifico-tecnica, i nuovi sviluppi della ragione antropologico-sociale. Cambia la facies della popolazione, in seguito al boom dell’invecchiamento: i vecchi e i longevi diventano sempre più numerosi e la medicina e la sanità si devono confrontare con uno spettro diverso della composizione della popolazione, che rappresenta un complesso di bisogni - individuali e sociali, tecnici e umani- tanto impellenti quanto onerosi, che richiedono un progetto assistenziale nuovo, che comprenda arte e scienza. Questi «nuovi vecchi» diventano una categoria esclusiva, in una fenomenologia che coinvolge tutto il mondo occidentale, dove la durata media della vita si è sensibilmente allungata. Fioriscono la geriatria e la gerontologia, nel cuore della polimorbilità. Tra la scienza di una longevità assicurata dagli sviluppi della medicina e il mito di una immortalità promessa in passato dagli elisir degli alchimisti, la sfida della vecchiaia è come un iceberg sommerso, dove l’insidia è rappresentata da ciò che non si percepisce, dai margini taglienti dei ghiacci, sotto l’ingannevole superficie del visibile.


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