Medicina e ricerca

Diagnostica microbiologica innovativa per il controllo delle infezioni nosocomiali nei reparti ad alto rischio. Perché no?

di Maria Paola Landini (professore di Microbiologia, Università di Bologna - direttrice Uo Microbiologia, Policlinico S.Orsola, Bologna)

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Il Ssn è alla disperata ricerca di mezzi per contenere le spese al fine di poter continuare a garantire le cure a tutti. E’ nell’ambito di questo tema che propongo una riflessione sulle infezioni causate dai batteri multi-resistenti agli antibiotici (MDR), sempre più presenti nei luoghi di cura e che causano un progressivo aumento nella spesa in antibiotici e in quella per la gestione assistenziale dei pazienti infetti o anche solo colonizzati, senza dimenticare le spese per cause legali intentate per decessi dovuti o collegati a queste infezioni. Solo negli USA 20 miliardi di dollari l’anno di spesa sanitaria in più, oltre i 100 milioni di euro annui in Italia. E' anche drammatico il fatto che il grado di antibiotico-resistenza correli col grado di corruzione dei vari Paesi e che, in Europa, l’Italia sia seconda solo alla Grecia.

Ma, fortunatamente, le cose evolvono e vi sono due fatti nuovi. Il primo è che, mentre rare case farmaceutiche cercano nuove molecole antibatteriche, molte ditte di diagnostici hanno messo a punto sistemi che in tempi molto ridotti (da meno di un’ora a poche ore) identificano la causa della infezione e ne definiscono le principali resistenze ai farmaci antimicrobici. In poche ore si può sapere, quindi, cosa somministrare o cosa non somministrare al paziente. Questa informazione così importante viene garantita coi metodi microbiologici tradizionali solo dopo 2-3 giorni, periodo nel quale il paziente viene trattato con terapia empirica, spesso formata da più di un farmaco, anche ad alto costo. Ma allora perché non puntare con decisione alla adozione dei nuovi sistemi diagnostici che potrebbero evitare molto di questo spreco? La motivazione sembra essere legata al loro maggiore costo rispetto alle metodiche tradizionali in una visione settorializzata del budget, ma anche ad una impostazione del percorso di diagnosi e cura che è principalmente basato sui curanti e sulla cura. E così, più si usano antibiotici più si selezionano microrganismi resistenti.

Però vi è il secondo fatto nuovo e cioè che ormai sono comparsi in letteratura dati importanti di costo/beneficio dei nuovi test che dovrebbero far meditare gli amministratori del Ssn. Ad esempio uno studio tedesco ha dimostrato che, pur non essendoci un rapporto costo/beneficio nell’utilizzare i test molecolari per identificare i pazienti infetti da Stafilococco aureo meticillino-resistente (MRSA) in uno screening generalizzato di tutti i pazienti da ricoverare, il test molecolare riduce la trasmissione degli MRSA nei reparti con pazienti ad alto rischio, quindi, considerando che un paziente con MRSA costa oltre 600 euro al giorno, il rapporto costo/beneficio è risultato evidente. Un altro studio condotto in GranBretagna, ha dimostrato la superiorità del test molecolare rispetto al test convenzionale per la ricerca degli enterobatteri resistenti agli antibiotici beta-lattamici (ESBL), riducendo il numero dei risultati falsi negativi (14% del totale) e facendo calare, di conseguenza, il numero dei giorni di inutile isolamento dei pazienti, con tutto ciò che questo comporta anche in termini economici. Sempre in Gran Bretagna, un anno di utilizzo di un pannello molecolare per la identificazione rapida dei patogeni intestinali (27% dei quali acquisiti in ospedale) in tutti i pazienti con diarrea in un ospedale di medie dimensioni, ha fatto risparmiare oltre 2000 giorni di ricovero e, considerando che un giorno di ricovero costa da 225 a 400 sterline, il risparmio totale stimato è risultato andare dalle 450.000 alle 800.000 sterline annue.
Vari sono gli studi fatti per verificare il rapporto costo/efficacia di un test che in 50 minuti determina la presenza di enterobatteri resistenti ai carbapenemi (CRE). Uno studio francese ha definito un risparmio di oltre il 90% nelle misure di controllo e nei costi di ospedalizzazione se questo test viene usato durante gli outbreaks. L’utilizzo fatto in Israele dello stesso test ha dimostrato che il rischio di acquisire una infezione nosocomiale da CRE nelle terapie intensive calava da un massimo mensile di 55.5 ad un minimo annuale di 4.8 casi per 100.000 giorni/paziente. Un analogo risultato è stato ottenuto all’ospedale Niguarda di Milano in una sperimentazione durata due mesi sui pazienti ricoverati in terapia intensiva. Il risparmio ottenuto per la gestione dei pazienti con CRE è stato complessivamente di circa il 60%. Da non dimenticare una review sistematica della letteratura con metanalisi dei dati eligibili che ha dimostrato che i test molecolari per identificare la resistenza dei micobatteri tubercolari alla rifampicina e all’isoniazide sono cost-effective.

E allora cosa si aspetta, almeno nei reparti ad alto rischio e per i setting in cui ci siano già forti evidenze scientifiche a supporto, ad invertire il rapporto tra la rilevanza della diagnostica microbiologica avanzata rispetto alla cura col farmaco antimicrobico? Il sospetto che in questa “non scelta” c’entri la potenza economica, politica e sociale di bigpharma non può certamente essere esclusa. Chi avrà il coraggio di provare ad invertire il rapporto?


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