Medicina e ricerca

L’impatto dei determinanti ambientali su cronicità e malattie neurodegenerative impone al pediatra un salto di qualità

di Ernesto Burgio (Pediatra; ECERI-European cancer and Environment Research Institute (Bruxelles); ISDE-International Society of Doctors for Environment)

Nel corso dell’ultimo secolo e in particolare negli ultimi decenni la salute globale nell’intero pianeta è drasticamente mutata: insieme ad una drammatica riduzione delle patologie acute da cause esogene (infettive e parassitarie) abbiamo assistito ad un incremento altrettanto significativo di patologie cronico-degenerative da cause endogene. L’incremento delle patologie del neuro-sviluppo (autismo, ADHD, dislessia), neuro-psichiatriche (schizofrenia, depressione major) e neurodegenerative rappresenta insieme a quello delle malattie endocrino-metaboliche (obesità e diabete tipo II) il capitolo più significativo di questa che potremmo definire la “Transizione epidemiologica del XX- XXI secolo”.

E' ancora possibile sostenere che queste patologie hanno una forte base familiare e “quindi” genetica? E' possibile collegare il drammatico incremento di disturbi neuropsichici ed endocrino- metabolici alle drammatiche trasformazioni ambientali e socioculturali che stiamo vivendo? E in particolare: quale è il ruolo, in tutto questo, dell’inquinamento ambientale, inteso come trasformazione della composizione stessa dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, delle catene alimentari?

Negli ultimi anni nel campo della biologia molecolare abbiamo assistito ad una vera e propria rivoluzione concettuale ed epistemologica: da un modello incentrato sulla sequenza-base del DNA, intesa come la sede del programma genetico necessario alla costruzione dell’intero organismo, si è passati ad un nuovo modello di genoma dinamico e interattivo con l’ambiente. La parola chiave in questa rivoluzione è epigenetica: la parte della genetica (ma forse si dovrebbe dire la nuova scienza) che studia le modifiche del software del DNA, cioè delle migliaia di molecole (proteine, RNA minori) che compongono la sostanza stessa dei cromosomi (cromatina) e che determinano il modo in cui il DNA si programma e si esprime giorno dopo giorno in risposta alle “informazioni “ e “sollecitazioni” che giungono dall'ambiente.

A questo punto è possibile capire in che senso la stessa idea-base di Progetto Genoma, quella di scoprire nelle piccole variazioni del DNA (polimorfismi e mutazioni) le cause delle malattie croniche (e del loro drammatico incremento), si sia rivelata semplicistica e l'ambiente si sia andato via, via imponendo come un fattore chiave nella programmazione e nelle trasformazioni del nostro fenotipo tanto in senso fisiologico, che in senso patologico.
A tutto questo si deve aggiungere un'altra nozione fondamentale, emersa prepotentemente negli ultimi anni: l'enorme importanza delle modifiche programmatiche del software epigenetico, indotte dall'ambiente nei primi mesi della vita (in particolare nel corso dello sviluppo embrio-fetale) a causa della maggior plasticità delle cellule poco differenziate e dei tessuti, organi e sistemi in via di organizzazione.

Su queste basi si va delineando un nuovo modello patogenetico, secondo cui le malattie croniche (e il loro continuo incremento) sarebbero la conseguenza delle modifiche della programmazione epigenetica di organi e tessuti, potenzialmente adattative (e addirittura predittive) a situazioni ambientali che l'organismo in via di sviluppo recepisce come non favorevoli alla realizzazione del suo programma genetico (fetal programming). E' questa la teoria dell'origine fetale delle malattie dell'adulto (DOHaD - Developmental Origins of Health and Diseases): un modello patogenetico potenzialmente unificante per tutte le patologie croniche in grande aumento e in particolare per le cosiddette “epidemie” di obesità, diabete 2, disturbi del neurosviluppo e patologie neurodegenerative, che impone immediate strategie di prevenzione primaria, mirate alla riduzione dell’esposizione materno-fetale ai sempre più numerosi fattori di rischio (in particolare ad agenti inquinanti ed a situazioni perturbanti e stressanti in senso lato).
Dovrebbe essere evidente a questo punto come non solo la professione del pediatra (e del medico in generale), ma il suo stesso ruolo culturale e sociale siano destinati a cambiare radicalmente nei prossimi anni: se i pediatri vorranno continuare a essere i primi “difensori” della salute del bambino dovranno tenere in maggior considerazione i principali determinanti ambientali e il possibile, enorme impatto di questi, in specie nelle prime fasi della vita, sulla salute individuale e collettiva.


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