Medicina e ricerca

Parkinson, la sfida è una buona qualità della vita

di Alfredo Berardelli (ordinario di Neurologia, Sapienza Università di Roma, presidente Accademia Limpe-Dismov)

Garantire una buona qualità di vita al malato di Parkinson e guardare al futuro per individuare al più presto i meccanismi di attivazione della patologia, sono gli obiettivi di medici e ricercatori.

Il numero dei malati di Parkinson, nei prossimi anni, è destinato a crescere, soprattutto in conseguenza dell’aumento dell’aspettativa di vita. In Italia, la ricerca in Neurologia è pronta ad affrontare questa nuova sfida e sta già lavorando per trovare soluzioni terapeutiche innovative, in grado di curare in modo efficace la malattia.

Già oggi, del resto, le risposte più efficaci alle necessità dei pazienti italiani sono fornite da un’eccellente attività scientifica in ambito neurologico, che si posiziona ai primissimi posti in Europa. Il nostro Paese offre strutture d’avanguardia per la ricerca e la cura, e assicura ai pazienti trattamenti adeguati, attività riabilitative e interventi chirurgici “best in class”. L’obiettivo, in ogni caso, è garantire una sempre migliore qualità di vita alle persone colpite da Parkinson nel corso delle diverse fasi di progressione della patologia.

Per un’ottimale presa in carico del paziente è necessario seguirlo sin dall’esordio della sua malattia, indirizzarlo verso centri dedicati e consigliare le soluzioni migliori in ciascun periodo della sua esistenza e della sua battaglia contro la malattia. Nelle fasi più avanzate, può essere necessario il ricovero in strutture specializzate o in centri di riabilitazione. Il trattamento dei pazienti giovani necessita di altre strategie terapeutiche rispetto ai pazienti in età avanzata.

I segnali d’allarme
Le “spie” del Parkinson - quali la lentezza nell’esecuzione dei movimenti, tremori, alterazioni della postura e a volte le cadute - possono, con il trascorrere del tempo, limitare le attività quotidiane dei pazienti. Quando i sintomi rappresentano un ostacolo alla vita lavorativa e sociale è necessario iniziare le terapie farmacologiche.

Con il passare degli anni, i pazienti possono - benché non in tutti i casi - andare incontro a disturbi cognitivi e ad alterazioni di tipo psichico, in grado di compromettere seriamente la loro qualità di vita. Nel momento in cui i farmaci cominciano ad essere inefficaci o cominciano a verificarsi gli effetti indesiderati tipici delle terapie farmacologiche stesse, si ricorre a terapie di tipo chirurgico, di stimolazione cerebrale profonda. A supporto del paziente vi è anche la riabilitazione che mira a migliorare la motilità.

La ricerca intanto non si ferma e proseguono gli studi per arrivare alla definizione di una terapia mirata sul meccanismo alla base della malattia. Il presupposto di questi studi è che non si possa ormai ritenere sufficiente un intervento terapeutico limitato ai sintomi di tipo motorio, ma che sia necessario approfondire quali siano i meccanismi fisiopatologici che innescano la patologia, e così agire direttamente sulle cause.

Quale prevenzione?
Oggi è ancora difficile, nel Parkinson, parlare di prevenzione: non ci sono strategie che consentano una diagnosi prima della comparsa dei sintomi motori.

In questi anni la ricerca è arrivata a scoprire che alla base della malattia ci sarebbe un accumulo di proteine che risultano tossiche per i neuroni cerebrali: un’evidenza che si spera possa rappresentare un primo passo verso l’individuazione dell’eziologia della malattia. Purtroppo, infatti, quando il paziente va dal medico perché soffre dei primi sintomi, si è già in presenza di un’alterazione di un numero rilevante di neuroni della “sostanza nera”: si ritiene infatti che all’insorgere dei primi disturbi rilevabili dal paziente circa il 50% di neuroni sia già compromesso.

È importante pertanto individuare marker biologici che consentano di dimostrare la sofferenza di questi neuroni in una fase in cui ancora non si siano manifestati i primi segnali di malattia.

A volte, già prima che i sintomi motori compaiono, possono manifestarsi altre condizioni cliniche, dalla depressione a sintomi gastro-intestinali, a disfunzioni olfattive e alterazioni del sonno. Tutti questi sintomi possono essere presenti prima che compaiano i disturbi motori e sono una spia sulla possibilità di sviluppare una malattia di Parkinson, ma allo stesso tempo sono talmente comuni che potrebbero essere associati a qualsiasi altra patologia.

L’individuazione di biomarker in grado di dimostrare alterazioni di sistemi sia motori sia non motori, potrebbe rappresentare un’occasione decisiva per la diagnosi precoce della malattia. Per questa notevole complessità, e per la specificità del percorso di cura, la diagnosi di Parkinson deve comunque essere effettuata sempre da un neurologo, l’unico professionista in grado di riconoscere con precisione la malattia in tutte le sue fasi, e di indicare le terapie più efficace, i centri specializzati per la presa in carico di questi pazienti. La prospettiva e la speranza di noi neurologi è che la ricerca ci possa dare a breve risposte incoraggianti e che ai farmaci sintomatici esistenti si possano presto affiancare nuove terapie in grado di agire sul meccanismo fisiopatologico che dà luogo alla malattia.


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