Medicina e ricerca

La dittatura delle zanzare

di Donatella Lippi (Storia della Medicina, Università di Firenze)

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Aprile 1947. Un virologo e un entomologo. Uganda, Foresta Zika. Il Macacus Rhesus nr. 766 sviluppa i sintomi di quella febbre, causata dalla puntura delle zanzare, che, pochi anni dopo, nel 1964, avrebbe mostrato i suoi effetti nell’uomo.

Per molti anni, il virus Zika decise di rimanere silente, lontano e poco significativo, noto solo per la sua parentela con la febbre gialla, la affinità con la chikungunya e, soprattutto, con le varie versioni della dengue. Sui manuali riceveva scarsa attenzione. Responsabile della diffusione era la puntura della zanzara che nel 1762 Linneo aveva chiamato “Aedes Aegypti”; le scimmie fungevano da serbatoi dell’infezione; il virus era diffuso in Africa, India e Sud-Est asiatico. Poi, le luci della ribalta mediatica.

Tristi tropici. Se l’epidemia di dengue, scoppiata in Brasile fu la tra le cause dello storico cambio di regime nel 2002, quando il candidato del partito socialdemocratico José Serra, candidato alla presidenza, perse la sfida contro Ignacio Lula Da Silva, in quanto accusato di non aver fatto abbastanza per contrastare il contagio quando era ministro della Salute, analogamente anche il turismo cubano, anni fa, fu messo in crisi da dengue e chikungunya.

«Mosquitos opositores: diputada chavista afectada por el chikungunya»: così, nell’ottobre 2014, veniva diramata la notizia che la seconda vicepresidente dell’Assemblea Nazionale venezuelana, la deputata Blanca Eekhout, non avrebbe potuto partecipare alle attività del Gran Polo Patriótico, per aver contratto la febbre chikungunya. Anche il destino dell’eredità di Hugo Chávez era segnato.

Se, queste malattie venivano quindi prepotentemente alla luce in tempi molto recenti, anche per le conseguenze politiche della loro virulenza, erano stati i padri gesuiti, già nel XVII secolo, ad avvisare che, nelle Americhe, si verificava la diffusione di una malattia, che provocava sintomi generici, se non per un ittero diffuso, che faceva diventare «più gialli di una mela»: era - questa - la prima segnalazione della febbre gialla.

Le febbri verso l’Europa dell’800. Confinata agli osservatòri tropicali del Nuovo Mondo, giunse anche nella vecchia Europa, a bordo delle grandi navi. In Italia, nel 1805, il medico Giacomo Tommasini (1768-1846) dette, infatti, alle stampe un’opera dal titolo «Sulla febbre di Livorno del 1804. Sulla febbre gialla americana e sulle malattie di genio analogo. Ricerche patologiche»: professore di fisiologia e patologia a Parma e poi di clinica medica a Bologna, fu anche medico della duchessa Maria Luigia di Parma. Tommasini riferiva che, nel porto di Livorno, nell’agosto del 1804, aveva attraccato il bastimento Anna Maria, proveniente da Veracruz e approdato poi a Cadice, da cui era ripartito alla volta del porto toscano: la Spagna era considerata “paese sicuro” a livello sanitario, tanto che non era stata richiesta alcuna misura di quarantena.

In realtà, tutto l’equipaggio era affetto da febbre gialla a uno stadio già avanzato, tanto che l’epidemia si diffuse molto rapidamente.

«I medici o non conoscendo la natura del nuovo male, o temendo che l’annunziarlo dispiacesse al popolo ed al Governo, non suggerirono alcuna utile misura. La malattia andò perciò giornalmente aumentando, fino a gettar lo spavento in Toscana e in tutta quanta l’Italia. Varie misure furono al Governo proposte, e da questo sperimentate, ma riuscendo vano ogni tentativo, fu ricorso al Palloni, come all’ancora sacra della Speranza, e fu spedito a Livorno in compagnia dei Dottori Bertini e Bruni onde provvedesse alla comune salvezza...».

Anche Gaetano Palloni (1776-1830), quindi, si pronunciò nei confronti di questa malattia, protagonista di un “contagio sui generis”, che appariva «sempre contagiosa», ma «non sempre ugualmente comunicabile...».

Dai miasmi della prima metà del secolo, alle considerazioni di Luis Daniel Beauperthuy (1807-1871).

Nel 1854, Beauperthuy affidava ad alcuni appunti, rivalutati poi agli inizi del secolo scorso, la sua teoria: le “fiebres miasmáticas” si trasmettevano attarverso una «absorción pulmonar y cutánea...».

Individuava, quindi, un virus “vegeto-animal”, derivato da sostanze in putrefazione, introdotto nel copro umano dalle zanzare: «Los agentes de esta infección presentan un gran número de variedades que no son todas perjudiciales en el mismo grado. La variedad zancudo bobo, de patas rayadas de blanco, en cierto modo la especie doméstica. Es la más corriente y su picadura es inofensiva comparativamente a la de otras especies. El puyón es más grueso y venenoso...».

Dalla prospettiva privilegiata di Guadaloupe, Caracas, Cumanâ, Barcelona e Guyana, Beauperthuy osserva, propone ipotesi e sperimenta.

Apre, così, la strada a una teoria, che sarà perfezionata decenni più tardi da C. Finlay, W. Reed, J. Carrol, A. Agramonte e J.W. Lazear, ma che era nata nell’Italia delle paludi, negli scritti di Varrone e Columella e di Giovanni Maria Lancisi, medico romano dei pontefici Innocenzo XI e Clemente XI.

L’Italia delle paludi. Gli stagni e gli acquitrini erano, infatti, da sempre, l’ambiente di vita delle zanzare, che avevano segnato i destini dell’Etruria.

Zanzare così fastidiose da interrompere il sonno del pastore, protagonista del Culex, nell’Appendix Virgiliana, che, addormentato all’ombra di un albero, stava per essere morso da un serpente velenoso.

Il pastore si salva, grazie al ronzìo della zanzara, che, poi, da lui schiacciata, gli comparirà in sogno, descrivendogli le sue pene di creatura insepolta, destinata a vagare nelle tenebre, finché il pastore le dona una onorata sepoltura.

Oggi, l’epitaffio a conclusione dell’epillio suona dolorosamente inattuale: «Parve culex pecudum custos tibi tale merenti / Funeris officium vitae pro munere reddit» tradotto in: «O piccola zanzara, il custode del gregge a te meritevole / questo ufficio funebre rende in cambio della vita».


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