Medicina e ricerca

Ringiovanire il cervello: mito o sfida per il futuro?

di Maria Pia Abbracchio (Università Statale di Milano) e Caterina La Porta (Fondazione Filarete, Milano)

Nei prossimi 50 anni, la popolazione in Europa sarà poco più numerosa ma molto più anziana: nel 2060 il 30% degli europei avrà almeno 65 anni. A livello globale, fra il 2050 e il 2060, la popolazione degli ultra-sessantacinquenni triplicherà da 524 milioni nel 2010 a circa 1 miliardo e mezzo. L’Italia guida la classifica dei paesi più vecchi, avendo inaugurato il nuovo millennio con un numero di anziani che supera quello dei giovani. Questo contesto di transizione demografica si associa inevitabilmente a un'evoluzione del quadro epidemiologico. Lo scotto da pagare per il progressivo aumento della vita media è che l’invecchiamento della popolazione va di pari passo con l’aumentata prevalenza di malattie cronico-degenerative (cardiovascolari, diabete, malattie neurodegenerative), che, proprio per la lunga durata, travalicano l'ambito della salute fisica, impattando sulla qualità della vita individuale e sociale.
Il quadro è particolarmente preoccupante per le malattie neurodegenerative, per molte delle quali non sono ancora disponibili cure risolutive, con aggravi della spesa sanitaria e assistenziale mai visti in precedenza. Solo negli Stati Uniti, da qui al 2050 è previsto un incremento di 2 volte della spesa per cura e assistenza delle persone con morbo di Parkinson e un incremento di 7 volte per i pazienti con Alzheimer o demenze Alzheimer-like. Inoltre, l'incidenza di altre malattie finora meno diffuse come la sclerosi multipla (Sm) sta assumendo proporzioni epidemiche, con più di 2 milioni di pazienti al mondo e un costo per paziente di circa 69.000 USD all'anno. Anche i casi di sclerosi laterale amiotrofica (Sla) continuano a crescere, e forse non solo per l'aumentata capacità di diagnosi di questi ultimi anni.
Ma il dato più sorprendente è che, al di là dei problemi specifici di ognuna di esse (disturbi del movimento in Parkinson e Sla, deficit sensoriali e motori nella Sm), anche queste malattie neurodegenerative sono associate a perdita di memoria, della capacità di intendere e di volere, e dell'autonomia personale, tutti sintomi che compaiono simultaneamente (o addirittura precedono) il deficit neurologico (Parkinson Disease Foundation: http://www.pdf.org/cognitive_impairment_pd; The Dana Foundation: http://www.dana.org/Cerebrum/2012/Cognitive_Impairment_in_Multiple_Sclerosis__A_Forgotten_Disability_Remembered/ ). Quindi, l'impatto globale dei disturbi cognitivi non è più conseguenza esclusiva del morbo di Alzheimer, ma interessa l'intera popolazione anziana con problemi neurologici e neurodegenerativi, con una diagnosi di demenza ogni 3 secondi e una spesa sanitaria prevista per il 2030 di tremila miliardi di dollari solo negli USA, teoricamente equivalente alla 18ma economia più grande al mondo (The World Alzheimer Report 2015–The global voice on dementia).

Quindi, vivremo più a lungo, ma come affronteremo gli aspetti sanitari, economici e sociali legati al declino cognitivo? Quanto è attuabile e sostenibile una società di anziani “pensanti”? Di questo si è parlato al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano il 29 settembre nella sessione “Ringiovanire il cervello: mito o sfida per il futuro?”, organizzata dall'Università Statale insieme con Fondazione Filarete, Fondazione Cariplo e il Museo in occasione di MeetMeTonight, iniziativa milanese della Notte dei ricercatori. Dal punto di vista delle nuove cure, sono stati menzionati almeno tre diversi approcci, il primo dei quali fondato sull’impiego di cellule staminali come fonte per rigenerare le cellule nervose andate perse. I trapianti di cellule fetali nel cervello di pazienti Parkinson condotti a partire dagli anni ’70 del secolo scorso ci hanno insegnato che, almeno dal punto di vista teorico, la terapia cellulare sostitutiva potrebbe funzionare. Infatti, in una percentuale (benché piccola: 10%) di pazienti, il trapianto ha mostrato benefici anche a distanza di anni, permettendo di ridurre (o abolire) l'assunzione di Levo-DOPA, uno dei farmaci più utilizzati nella malattia. Tuttavia, difficoltà nella reperibilità delle cellule da trapiantare e riproducibilità del trapianto, insieme con la bassa efficacia e i gravi effetti collaterali suggeriscono che la terapia con staminali embrio-fetali abbia ancora molta strada da fare, e la sua applicazione in larga scala è estremamente dubbia. Sono al momento investigate altre strategie, quali lo sfruttamento delle cellule simil-staminali ancora presenti nel cervello adulto (da reclutare e indirizzare alla zona lesa da riparare), oppure delle iPS (cellule pluripotenti indotte), ottenute da cute o sangue dei pazienti e stimolate in vitro a trasformarsi nelle cellule da sostituire. Anche qui, però, la messa a punto richiederà verifiche e tempo.
Una seconda possibilità è quella di re-indirizzare a queste malattie farmaci già in uso nell'uomo per altre indicazioni (repurposing) per i quali dagli studi di base siano emerse evidenze di neuroprotezione. Trattandosi di farmaci già noti e sicuri, l'applicabilità di queste medicine alla demenza e malattie correlate potrebbe molto più velocemente portare a terapie risolutive.
Un terzo approccio altamente innovativo è l’uso dei “big data”, l'analisi coordinata di moltissimi database di pazienti per ottenere informazioni che l'analisi di singoli individui non fa emergere, al fine di identificare marcatori o bersagli molecolari di patologie complesse, dall'Alzheimer alla progeria, malattia nella quale invecchiano precocemente tutti gli organi eccetto che il cervello. Svelando con quali meccanismi il cervello viene “risparmiato” nella progeria potremo capire come proteggerci dall'invecchiamento cerebrale e porre le basi per generare farmaci anche per questa malattia. Applicando l'uso dei Big Data alla progeria, il gruppo di Caterina La Porta ha evidenziato un gruppo molto interessante di geni legati a processi caratteristici delle cellule staminali.
Per l'analisi dei Big Data, bisogna in primo luogo trattare i dati opportunamente ed eliminare effetti spuri dovuti alla procedura sperimentale (il cosiddetto “batch effect”). Il punto debole è che i potenziali marcatori che cosi' emergono rappresentano una fotografia dello stato finale della malattia e non ci aiutano necessariamente a capirne le cause. Quindi, se da un lato possiamo usare i “Big Data” per scavalcare il ricercatore, riducendo costi e tempo di lavoro per identificare la firma genetica delle malattie, dall'altro abbiamo bisogno del ricercatore sperimentale per capirne le cause. In questo ambito, l'approccio che sta rivoluzionando la medicina moderna è il “machine learning”, e cioe' la possibilità di addestrare opportunamente gli algoritmi a riconoscere e classificare immagini, così che il computer può aiutare il medico nella fase di diagnosi soprattutto nei casi più difficili, riducendo anche la soggettività del medico. Per entrambi gli approcci è necessario personale altamente qualificato e fortemente interdisciplinare in grado di maneggiare sia il problema biologico che la parte algoritmica, una rarità in Italia ma una realtà negli Stati Uniti (Rice University in Texas o Broad Institute a Cambridge) e in Europa all'Istituto Curie di Parigi.
Per raggiungere questi obiettivi, oltre all'intervento degli organi che istituzionalmente sostengono la ricerca di base (i ministeri), è fondamentale il contributo di enti e fondazioni private, come Fondazione Cariplo, che si caratterizza per l'approccio sussidiario, affiancando le organizzazioni della società civile, anticipando i bisogni della comunità e favorendo la sperimentazione di soluzioni innovative e diffusione dei casi di successo.


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