Medicina e ricerca

Fine vita, la relazione di cura è il confine della medicina

di Roberto Mordacci (preside Facoltà di filosofia, Università Vita-Salute San Raffaele)

Ho seguito con grande interesse negli anni il percorso lungo, accidentato e non privo di polemiche che ha portato al testo sulle Disposizioni anticipate di trattamento e in materia di consenso informato. Un testo votato da un arco parlamentare così ampio da restituirci un segnale politico e culturale incoraggiante, un’importantissima convergenza tra parti politiche inclini, di solito, alla litigiosità. Una convergenza ampia e democratica su una legge che ritengo molto ragionevole ed equilibrata, in primo luogo perché chiarisce il raggio d’azione, il perimetro, della scienza medica: dare consenso o diniego a dei trattamenti significa infatti inserire la necessità di una concertazione, di una concordanza col paziente e non riconoscere la scienza come lo strumento ultimo che sia di per sé il solo in grado di conoscere il bene di ciascuno di noi.

Il confine della medicina si pone così nella relazione di cura, dove la cura è intesa nel suo senso più alto di attenzione, mai di sopruso, e dove l’ultima parola su trattamenti invasivi o salvavita spetta al paziente. Le disposizioni anticipate di trattamento consentiranno anche di sgomberare il campo dalla profonda e a volte strumentale confusione che si è fatta nel dibattito pubblico tra eutanasia e interruzione di un trattamento sanitario, quest’ultima legittima perché non stabilisce alcun nesso di causalità diretta con la morte del paziente ma ne tutela piuttosto la libera espressione della volontà. Una scienza di puri fatti non ha nulla da dire sul senso scriveva Edmund Husserl, il padre della fenomenologia - la nostra cultura, la nostra morale, le nostre tradizioni, i nostri convincimenti, in una parola il “senso” che attribuiamo alla nostra esistenza non è una semplice “dichiarazione” che possa essere soverchiata, bensì una “disposizione” che con la sua fattività garantisce il nostro diritto.

Queste disposizioni non riguardano il darsi la morte (su questo punto, il timore di una parte del mondo cattolico è mal fondato), bensì il senso della cura e il suo limite, quando il paziente intende reagire a un certo “automatismo” del sistema biomedico. Con questa legge ci riavviciniamo anche alle legislazioni dei principali Paesi europei in merito, che il biotestamento lo prevedevano da tempo. E lo facciamo senza rischiare, come hanno fatto tempo fa ad esempio Belgio e Olanda, di scivolare nella legalizzazione dell’eutanasia, cioè dell’attiva uccisione del paziente da parte del medico: interrompere una cura è, dice la nuova legge, un diritto, anche quando si tratta di idratazione e alimentazione artificiale. Richiedere che sia data la morte non lo è, perché è una cosa molto diversa. È un contributo di chiarezza fondamentale per la fine della vita.

Roberto Mordacci

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