Medicina e ricerca

Salute e sviluppo, la minaccia si chiama malattie non trasmissibili

di Giuseppe Novelli*

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24 Esclusivo per Sanità24

Sono il killer più temuto del nostro tempo, responsabili di 7 morti ogni 10, il 91% dei decessi in Italia, 41 milioni di persone nel mondo, di cui 15 milioni tra i 30 e i 69 anni, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.
Comprendere, sino in fondo, che le cosiddette malattie non-trasmissibili (NCDs) non sono unicamente un problema sanitario, ma anche il più grave freno allo sviluppo globale, è il primo passo di un cammino che governi, istituzioni e organismi internazionali si sono impegnati a percorrere dandosi un obiettivo preciso: ridurre del 40% il numero dei morti da qui al 2025. Traducendo: 246.200 vite, solo in Italia, potrebbero essere salvate nei prossimi 7 anni.
Poche settimane fa, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha sancito con l'Oms la netta volontà di proseguire, rafforzare e potenziare la lotta alle NCDs, e di predisporre azioni concrete anche sul fronte della salute mentale, altra grande fonte di preoccupazione: solo le persone affette da depressione sono oggi 300 milioni.
Ma quali sono le cause di questa dilagante emergenza? Numerose, interconnesse, saldamente ancorate al contesto socio-economico dei malati. Una tra le caratteristiche principali delle malattie non-trasmissibili è infatti il loro essere multifattoriali: caratteristica che richiede, di conseguenza, un approccio multidisciplinare, sia nelle politiche di contrasto che nelle pratiche assistenziali, di ricerca e terapeutiche. Una lotta, in sostanza, che deve necessariamente vedere fianco a fianco istituzioni, comunità scientifica, enti di formazione e comparto produttivo.
È stimato (fonte: OMS) che l'attuazione delle politiche di prevenzione e contrasto delle malattie non-trasmissibili potrebbe tradursi in crescita economica per i Paesi a basso e medio reddito, per una cifra fino a 350 miliardi di dollari entro il 2030.
La povertà è infatti intimamente connessa alle NCDs, sia per quanto concerne i fattori di rischio che per quanto riguarda la limitazione di accesso alle cure e alle strutture sanitarie. Una condizione capace di minacciare il raggiungimento degli obiettivi dell'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Ma chi sono, i migliori amici delle NCDs? Tra i principali: abitudini alimentari scorrette, fumo, inattività fisica. Fra le azioni da attuare, sottoscritte dai grandi della Terra, figurano infatti leggi e misure fiscali per proteggere le persone da questi “nemici” quotidiani, campagne di educazione pubblica e sensibilizzazione, con interventi di prevenzione basati sulla riduzione del rischio a livello di popolazione.
Ma certamente, questo non basta. Jim Fixx, maratoneta in splendida forma, amante dello jogging, morì di infarto a 52 anni. Anche suo padre morì di infarto, e di anni ne aveva 43. Il vecchio, pigro e rinomato ghiottone e tabagista Sir Winston Churchill, invece, visse, con tutti i suoi “vizi”, fino a 90 anni. Due storie a confronto, simbolo di quello che viene chiamato “il paradosso dell’infarto”: la metà delle persone colpite da infarto non mostrava, prima dell’episodio, significative variazioni negative dei valori di colesterolo, trigliceridi o altri fattori di rischio evidenti. E questo ci porta a riflettere su un dato rilevante: sappiamo che gli esseri umani sono più diversi fra loro di quanto abbiamo mai pensato, con le 4,6 milioni di varianti di DNA, ad esempio, e le almeno 70 mutazioni trasmesse dai genitori all’atto del concepimento.
Un approccio sinergico e strutturato nella sfida alle malattie non-trasmissibili può e certamente deve, poiché oggi è possibile, prevedere anche l’implementazione degli screening per la valutazione del rischio individuale, di cui fanno parte tanto il corredo genetico quanto le abitudini alimentari, così come l’appartenenza a un determinato gruppo socio-economico e il progressivo, inarrestabile invecchiamento della popolazione: nel 2050, la percentuale delle persone over 65 avrà un enorme balzo in avanti, passando dal 18% del 2015 ad un imponente 30%.
Tutto ciò richiede un cambiamento radicale dei modelli di cura fino ad oggi utilizzati nel mondo, e lo sviluppo di nuovi protocolli di intervento a livello globale con nuove tecnologie, nuovi sistemi educativi, nuovi strumenti finanziari, nuove forme di collaborazioni e di interazioni tra i diversi attori (governi, università, associazioni di pazienti, industria, società civile).
Un contributo fondamentale può e deve essere fornito anche dalle Università e dall’accademia in genere attraverso importanti investimenti formativi, e in particolare: puntando concretamente sui giovani ricercatori; facilitando la transdisciplinarità, cioè l’interazione trasversale dei saperi con metodi innovativi; favorendo sinergie virtuose lungo l’asse ricerca-industria-università per una strategia “win-win-win”; incoraggiando la partecipazione alla scienza di settori più ampi della popolazione.
Grande attenzione, in questo scenario, andrà riservata al tema dell’open science: solo attuando una scienza che sia veramente "aperta" si potrà stimolare e garantire una diffusione del sapere che è passaporto indispensabile per lo sviluppo di una società più forte e più resiliente. La guerra alle NCDs è cultura, ricerca, scienza, politica, economia, formazione, informazione. Una guerra che si può vincere, allenando le giovani generazioni e superando miopie, resistenze e paure. Per citare Marie Curie: “Niente nella vita va temuto, dev’essere solamente compreso. Ora è tempo di comprendere di più, così possiamo temere di meno”.

*Genetista e Rettore dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”


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