Medicina e ricerca
Tumori, la vera rivoluzione è "normalizzare" la malattia
di Alessandra Ferretti
24 Esclusivo per Sanità24
"Normalizzare" la malattia cancro, per abbatterne la valenza metaforica, medica, scientifica e politica che la associa alla peggiore "piaga della nostra epoca". È il messaggio uscito dal I Seminario regionale dell'Emilia Romagna "Informare sul cancro. Come comunicare le nuove prospettive in oncologia attraverso i media", organizzato all'Auditorium Credem a Reggio Emilia il 19 giugno sotto la direzione scientifica di Carmine Pinto, direttore Oncologia Medica Ausl-Irccs di Reggio Emilia. Il seminario, organizzato subito dopo il Congresso mondiale Asco 2019 di Chicago, dove si presentano ogni anno tutti i dati e le novità in oncologia, ha l'ambizione di diventare a cadenza annuale e con caratteristica itinerante, ogni volta in una provincia diversa dell'Emilia Romagna.
L'obiettivo era spiegare ai giornalisti "cosa" e "come" debba essere comunicato quando l'argomento sia così sensibile come quello della malattia oncologica, da una parte, e fornire ai professionisti della sanità la "cassetta degli attrezzi" del giornalismo, in modo da metterli in condizione di saper comunicare correttamente con i media, dall'altra.
In passato, la stampa ha contribuito non poco ad influenzare le scelte di cura, anche in maniera non positiva. Il caso più eclatante risale alla fine degli anni Novanta con Luigi Di Bella, professore di fisiologia dell'Università di Modena, che sosteneva di poter curare le neoplasie grazie ad un mix di farmaci (alcuni chemioterapici), ormoni e vitamine, privi di effetti collaterali. Anche a seguito della campagna mediatica senza precedenti che ebbe luogo, l'allora ministro della Sanità, Rosy Bindi, acconsentì ad avviare una sperimentazione clinica, che non diede alcun esito positivo. Tuttavia in quegli anni moltissimi pazienti abbandonarono le terapie riconosciute per sposare la cura Di Bella.
Potremmo citare anche altri casi, ma questo è sufficiente quanto lampante per dimostrare quanto possono essere dannosi gli effetti di una campagna giornalistica che recepisce e trasmette un messaggio sbagliato. Tanto più che l'episodio ha determinato anche un rischio più sottile e forse maggiore: limitare la scienza ufficiale nella sua capacità di farsi ascoltare.
Alcuni punti fermi, universalmente condivisi, da cui partire per lavorare in coordinamento tra medici e media, li abbiamo.
Primo, il cancro esiste da sempre (non è il "male del Novecento" e degli anni 2000, come spesso viene detto). Fa parte della storia dell'uomo sin dal principio, perché l'adattamento della specie all'ambiente circostante coinvolge inevitabilmente mutazioni e alterazioni del nostro patrimonio genetico. Alcune di queste mutazioni sono innocue, altre sono maligne e vengono eliminate naturalmente dal nostro sistema immunitario, altre diventano tumori.
Secondo, come tale il cancro non potrà mai essere debellato, come accaduto per altre malattie (ad esempio, il vaiolo).
Terzo - e questa è la buona notizia -, il cancro è la patologia potenzialmente più prevenibile e, oggi, anche grazie alla prevenzione, la più curabile.
Quarto – è sempre bene ricordarlo – la chirurgia rimane il primo strumento di controllo e di cura per i tumori solidi. Ciononostante, negli anni è stata sempre meno sotto i riflettori delle istituzioni, delle grandi industrie sanitarie e dei media. In realtà, oggi più che mai, la chirurgia oncologica e l'oncologia medica sono alleati strettissimi che interagiscono e che non a caso fanno parte del team multidisciplinare che prende in carico il paziente oncologico. E l'intervento chirurgico si integra appieno con i trattamenti neo-adiuvanti (terapia chemioterapica preoperatoria) e con quelli adiuvanti (terapia post-operatoria).
Ogni anno in Italia vengono diagnosticati oltre 373mila nuovi casi di cancro (più di 1.000 al giorno), esclusi i tumori della pelle. Di questi, il 52% fra gli uomini e il 48% fra le donne, con un'incidenza in calo tra gli uomini (-1,1 per cento per anno dal 2007) e una sostanziale stabilità tra le donne. Parimenti, negli ultimi anni sono complessivamente migliorate le percentuali di guarigione: il 63% delle donne e il 54% degli uomini è vivo a cinque anni dalla diagnosi (dati Airtum).
Ebbene, a fronte di questo panorama ci si chiede se non sia il momento storico più adatto per apportare una sorta di "rivoluzione" in campo oncologico: quella della normalizzazione di questa malattia.
Quando diciamo "normalizzare" la malattia "cancro" non intendiamo sottovalutarla, sminuirla o svilirla. Intendiamo smettere di demonizzarla. Con tutto ciò che questa sua demonizzazione comporta, a cominciare dall'utilizzarla come metafora per tutto quello che nella società c'è di diabolico e insano.
Lo racconta bene Siddharta Mukherjee, oncologo e docente alla Columbia University, autore de "L'imperatore del male. Una biografia del cancro": 662 pagine di dettagli, che raccontano "la cronaca di una malattia che, un tempo clandestina, si è trasformata in un'entità letale e multiforme, pervasa di una valenza metaforica, medica, scientifica e politica tanto profonda, da essere spesso descritta come la piaga della nostra epoca".
Senza dubbio, è una malattia che fa ancora molta paura. E se è vero che tutti i tumori sono "curabili", è anche vero che non tutti sono "guaribili".
L'esigenza di normalizzare questa malattia non è nata oggi, ma oggi – soprattutto a fronte del numero dei pazienti coinvolti e dei progressi della medicina - prende ancora più forza.
Erano gli anni '70 e Susan Sontag, nota scrittrice americana che passò attraverso due tumori, scriveva il libro-pamphlet "Malattia come metafora. Il cancro e la sua mitologia". "La malattia cancro NON è una metafora", scriveva". La maniera più corretta di considerarla - e la maniera più "sana" di essere malati – è quella più libera da pensieri metaforici. Come possiamo, oggi, entrare nella malattia e convivere con essa, senza essere influenzati dalle impressionanti metafore con cui questa è stata tratteggiata in quest'ultimo secolo e mezzo?".
Fino a che il patologo tedesco Rudolf Virchow non introdusse il fondamentale concetto di patologia cellulare (1855) e finché poco dopo (1881 con Robert Koch) non si capì come la tubercolosi fosse un'infezione batterica, non si riuscì a distinguere le due malattie, cancro e tbc. Quando ciò sarebbe avvenuto, tuttavia, le fantasie moderne sul cancro (1920) avrebbero ereditato quasi tutti i problemi drammatizzati da quelle sulla tbc.
Il passo successivo è stato quello di utilizzare la malattia come metafora, appunto, imponendo il suo orrore ad altre cose. Vale a dire che la malattia è diventata aggettivale.
Anche nella recente campagna elettorale amministrativa, durante la quale i giornali hanno ha riportato le dichiarazioni dei candidati, più volte abbiamo sentito utilizzare metafore come "la mafia cancro della società", laddove l'espressione assume il significato della cosa più deviante, abnorme, incontrollabile, anomala, insanabile a cui si possa mai pensare. Ma come possiamo "normalizzare" la malattia cancro e quindi "sollevarla" da questa idea di invincibilità e portatrice di "morte quasi certa" se si continua ad usarla come metafora per le piaghe più aberranti?
Poi c'è l'estremo opposto. È il caso di una nota conduttrice televisiva colpita da tumore al cervello attorno a cui è scoppiata una eco mediatica quasi incontrollata, soprattutto sulle testate online. Non è nostra intenzione giudicare la persona interessata dalla malattia – ciascuno la vive a modo proprio e nessun altro deve entrarci. Ci riferiamo invece al fatto che alcune dichiarazioni siano state pubblicate sui giornali.
Riportare nei titoli di giornale la definizione del cancro come "dono" o addirittura l'affermazione che "volere è potere" rischiando di illudere migliaia di pazienti oncologici che basti la sola forza di volontà a sconfiggere la malattia o, forse ancora peggio, finendo per assegnare a moltissimi di loro il marchio immeritato di falliti non è né etico, né deontologico.
Nei centri di cura hanno creato la figura dello psiconcologo, che affianca l'équipe dei medici oncologi. Nel 2010 la psiconcologia è stata inserita nelle linee guida dei "Piani oncologici nazionali" per la "prevenzione, cura e riabilitazione del disagio emozionale". Una concezione divenuta oggi realtà di cui si parlava già in passato.
Uno su tutti, negli anni '50 del ‘900, fu Sidney Farber, il patologo che completò i primi trial sulla leucemia quasi senza sapere come funzionava l'aminopterina sulle cellule sane, per non parlare di quelle tumorali, conosciuto universalmente come "padre della moderna chemioterapia". Farber scrisse come il cancro fosse "una malattia totale, che colpisce i pazienti non solo fisicamente, ma anche psicologicamente, socialmente ed emotivamente". Solo un attacco composito e multidisciplinare avrebbe dunque avuto qualche possibilità di combattere la malattia. Farber la chiamava la "cura totale".
In tale contesto è incluso l'impegno alla comunicazione dell'oncologo verso il paziente che purtroppo in Italia non è ancora materia di studio standardizzata nelle Facoltà di Medicina. Qualcuno lo sta timidamente azzardando: proprio l'anno scorso, ad esempio, è stato attivato un corso di comunicazione medico-paziente per gli studenti dell'ultimo anno della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Torino, in collaborazione con le Molinette e l'Asl.
Tutto ciò per dire che basta una frase sensazionalistica sparata sulle prime pagine dei giornali e tutto questo lavoro di comunicazione è vano.
Il mestiere del giornalista è quello di fare informazione, corretto. Ma la sua più profonda e delicata responsabilità sta anche nel decidere quale peso dare alle notizie, perché è con questa decisione che ha il grande potere di influenzare l'opinione pubblica.
Quando un cancro viene diagnosticato, l'unica decisione che si può prendere, lucidamente, freddamente, è affidarsi alla medicina tradizionale, riconosciuta, sperimentata, seria: alla chirurgia oncologica (se e quando indicata) e/o ai trattamenti adiuvanti: chemio-, radio-, immunoterapia, terapie target, in un futuro vicino anche profilazione genomica e medicina di precisione, evitando i percorsi "fai-da-te" e le lusinghe di chi promette "sconti" della malattia.
E man mano che il concetto della "normalizzazione" verrà sempre più introiettato si potrà apprezzare meglio il concetto espresso bene da Woody Allen, quando dice: "Le due parole più belle che mai potranno dirti nella vita non sono "ti amo", ma "è benigno"
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